Michael Jordan, una leggenda che non muore mai. L’ex campione di basket americano, considerato da molti il più grande sportivo di tutti i tempi, colpisce ancora, a quasi 20 anni dal suo ritiro definitivo dalla pallacanestro giocata (ora è proprietario della franchigia dei Charlotte Hornets) e a 22 anni dal suo ultimo indimenticabile exploit sul parquet dell’Nba, il sesto titolo vinto (terzo consecutivo, dopo i tre consecutivi dal 91 al 93) con i Chicago Bulls nella primavera del 1998. Quell’ultimo “ballo”, puntellato con la vittoria in finale contro Utah grazie proprio al tiro decisivo di Jordan, come – o ancora meglio che – in un film di Hollywood, è raccontato in queste settimane dalla docu-serie intitolata appunto “The Last Dance”, in onda su Netflix in 10 puntate, pubblicate due alla volta ogni lunedì (il 18 maggio in Italia riaprono negozi e ristoranti, ma escono anche le ultime due puntate della saga).
Il prodotto è l’evento mediatico dell’anno, favorito forse dal lockdown e dall’assenza dello sport live: un vero e proprio kolossal, con oltre 500 minuti di immagini, video, interviste e retroscena, per lo più inediti, che ricostruiscono anno per anno, partita per partita, l’epopea del grande campione. “The Last Dance” è pura poesia per gli appassionati di basket, ma non solo: il ritmo, la qualità e la trasversalità della docu-serie, che racconta anche l’America di quegli anni ed è impreziosita da interviste agli ex presidenti Bill Clinton (alla Casa Bianca in quegli anni) e Barack Obama (nato a Chicago e tifosissimo dei Bulls), hanno conquistato anche il grande pubblico. E realizzato l’ennesimo miracolo economico del brand Jordan che ancora oggi, grazie all’accordo con la Nike firmato a fine anni ’80, permette al campione di portarsi a casa la bellezza di 130 milioni di dollari l’anno. Nemmeno la stella di oggi, LeBron James, lo supererà, pur avendo firmato con la multinazionale dello swoosh (la virgola orizzontale, il suo simbolo) un contratto a vita da 1 miliardo di dollari.
Questa volta Jordan e la sua leggenda, riaccesa dalla serie in onda su Netflix, hanno sconfitto persino il coronavirus. Nike infatti è l’unica, tra le grandi aziende di abbigliamento sportivo, ad aver tenuto botta nel primo trimestre del 2020. Anzi, il suo fatturato, grazie alle vendite online, è persino cresciuto del 5%, nonostante la gigantesca crisi internazionale che ha invece travolto i rivali di Under Armour (-32%) e Adidas (vendite -19%, con previsioni del -40% nel secondo trimestre): la casa tedesca, penalizzata anche dal rinvio degli Europei di calcio e delle Olimpiadi di Tokyo, ha visto gli utili precipitare del 95% ed è persino dovuta ricorrere ad un prestito di 3 miliardi concesso dal governo e valido fino a luglio 2021. Come mai la crisi non ha invece travolto Nike? Semplice: le scarpe. Le Air Jordan 5, uscite poche settimane fa in contemporanea con il lancio del documentario, negli Stati Uniti sono andate a ruba in poche ore, anche grazie al rinvigorito (ma in realtà mai sopito) culto del campionissimo.
Queste scarpe da collezione costano in media 140 dollari e sono diventate il prodotto di punta dell’e-commerce Nike, che dopo la sospensione dell’asse con Amazon decisa a fine 2019 ha puntato sempre più forte sulla vendita diretta, con i risultati che si stanno vedendo. La storia delle Air Jordan viene raccontata proprio in uno degli episodi di “The Last Dance”, e per Adidas ha quasi il sapore della beffa. Jordan fu accolto nell’Nba come una star, ma all’epoca il fornitore di scarpe ufficiale era Converse, che aveva già l’accordo con i grandi campioni dell’epoca (Magic Johnson e Larry Bird su tutti) e dunque non avrebbe creato una linea personalizzata per l’astro nascente. Dunque arrivò la proposta di Nike, che all’epoca non era la multinazionale di oggi ma un’azienda meno nota, che produceva principalmente scarpe da corsa: Jordan inizialmente rifiutò perché avrebbe preferito legare il suo nome e la sua carriera ad Adidas, ma grazie al suo procuratore andò come sappiamo.
Dal primo spot, girato da Spike Lee e che lanciò la tendenza delle scarpe da basket anche come oggetto simbolo della cultura urbana, all’intramontabile logo che raffigura una famosa schiacciata del numero 23 all’All Star Game, fino alla serie-kolossal che ha fermato la crisi coronavirus: ancora oggi, Michael Jordan è il più grande campione di sempre e il più grande affare per l’azienda che ha sponsorizzato.