Non è la prima volta che la Segreteria di Stato va ad ambizioni presidenziali frustrate. Hillary Clinton rientra nella categoria, sconfitta alle primarie 2008, e poi chiamata da Obama, pegno e simbolo dell’alleanza con Bill, oltre che con lei stessa, protagonista in proprio. Per restare solo nell’ultimo secolo, William Jennings Bryan, il grande leader populista, chiamato da Wilson nel 1913. Edmund Muskie, nella fase finale di Carter, 80-81. E ora John Kerry, candidato democratico sconfitto da Bush figlio nel 2004.
Ci sono stati Segretari forti, e il nome che balza subito è quello di Henry Kissinger, a metà degli anni ’70. Sarà anche stata la sua capacità di visione, abilità diplomatica e di negoziatore, freddezza di azione, ma la sua statura deve molto al fatto che si trovò per la fase centrale del mandato a fianco di un presidente inevitabilmente debole, ottima persona ma arrivato dopo il Watergate per successione costituzionale e non votato, il presidente della Camera Gerald Ford.
Dagli anni di Roosevelt la maggior parte dei Segretari di Stato hanno gestito la diplomazia, e applicato decisioni prese alla Casa Bianca a volte anche in loro assenza. Kerry, 69 anni, arriva dopo una duratura presenza al Senato, come Hillary Clinton del resto. Può vantare una fitta rete di relazioni internazionali che già Obama ha utilizzato spesso, con Kerry discreto negoziatore e ambasciatore-ombra itinerante.
Soprattutto Kerry non ha, a differenza di Hillary, particolari eredità di famiglia e personali da difendere e potrà dedicarsi meglio a un compito urgente: ridefinire gli interessi e le priorità americane di politica estera, adattarli a un mondo nuovo e più difficile, a un’America con meno risorse finanziarie, al momento almeno. E potrà spiegare il tutto a un’opinione pubblica decisamente disorientate in politica estera. Combattuta tra il desiderio di risolvere per le spicce ma solo con interventi chirurgici e brevi presenze militari nodi che non sempre militari sono e quello opposto di ridefinire in modo riduttivo gli interessi nazionali in modo che di interventi militari non ci sia più bisogno, a meno che qualcuno non attacchi Guam o Portorico o non affondi una portaerei Usa nel Golfo Persico.
“Ciò che sembra pianificazione è spesso la proiezione nel futuro di quanto risulta familiare oggi”, scriveva Kissinger nella terza edizione del suo American Foreign Policy, miscellanea di vari interventi. Kerry si insedia mentre i contorni familiari della politica estera americana, e il riferimento è a quella che già incorporava i grandi cambiamenti post-Urss e post boom cinese di 20-15 anni fa, sono sempre più labili. Se Hillary Clinton ha potuto gestire l’esistente, concentrandosi sull’Asia e sul grande creditore dell’America, la Cina, Kerry deve andare oltre. E nell’audizione al Senato per la conferma, il 24 gennaio, lo ha chiaramente indicato. Concentrandosi sul nesso tra politica interna e politica estera, la seconda funzione della prima, e sul nodo dell’economia.
“Più che mai – ha detto agli ex colleghi della Commissione Esteri – la politica estera è politica economica”, aggiungendo che “per molti aspetti la sfida più rischiosa per la politica estera americana sarà nelle vostre mani più che nelle mie”. Sarà quindi nella credibilità delle finanze pubbliche americane, nella solidità del sistema finanziario e nella forza del sistema produttivo prima ancora che nella professionalità e capacità della diplomazia. Del resto già quasi tre anni fa l’allora capo di Stato Maggiore della Difesa, ammiraglio Mike Mullen, aveva indicato nelle finanze pubbliche e nella finanza in genere il punto di maggior preoccupazione per la sicurezza nazionale. Nella credibilità dell’America, insomma.
Asia e Golfo Persico saranno centrali. Ma anche i rapporti con la Russia, a lungo negletti, richiedono attenzione.
L’Europa? Dopo che mezza America e tre quarti di Wall Street hanno tifato per la fine dell’euro, forse un vecchio viaggiatore su tutte le vecchie vie consolari, chaussées, landstrassen e carreteras d’Europa, fluente in francese cosa che non è in America necessariamente un plus, avrà qualcosa di nuovo da dire.