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Jobs Act tra pregiudizi e realtà: la svolta a sorpresa di Letta e il crollo delle liti sui licenziamenti

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Andrea Orlando in campo: “Il Jobs act non è stato solo l’abolizione dell’articolo 18, è stata l’ultima grande scommessa liberista sul mercato del lavoro di una serie che inizia negli anni Novanta, e a cui la sinistra ha partecipato. La scommessa era già persa pochi anni dopo l’approvazione, tant’è che al congresso del 2017 in cui mi candidai segretario si poneva già il suo ripensamento. Ripristinare l’articolo 18 così com’era sarebbe forse anacronistico, ma è comunque necessario intervenire perché diverse sentenze della Consulta hanno messo in luce le gravi incongruenze del Jobs act”. Così, in una intervista, il ministro del Lavoro e delle Politiche sociali ha integrato le stupefacenti affermazioni di Enrico Letta al Manifesto (“Il programma del Pd supera finalmente il Jobs Act”), spiegando il significato liberatorio di quell’avverbio (finalmente) e i motivi delle prese di distanza del Pd di oggi rispetto a quel pacchetto di norme (una legge di delega con ben otto decreti delegati) che fu il fiore all’occhiello del Pd di ieri.

Le precedenti riforme del lavoro

Scopriamo oggi – al di là delle considerazioni errate a proposito dell’articolo 18 – che il Jobs act “è stata l’ultima grande scommessa liberista sul mercato del lavoro di una serie che inizia negli anni Novanta e a cui la sinistra ha partecipato”. Orlando la prende da lontano e accusa di deviazioni liberiste una sfilza di ministri del Pd o del centrosinistra a partire da Tiziano Treu, che fu il primo nel 1993 a spezzare – su indicazioni della Ue – le catene burocratiche del collocamento pubblico, da sempre inservibile e aggirabile, ma vero e proprio calvario delle imprese intenzionate ad assumere.

Anche la riforma dei contratti a termine – in senso non proibitivo come in precedenza, sia pure utilizzabile in presenza di precisi requisiti – fu promossa da una direttiva europea. Si è passati poi per il Libro Bianco sul mercato del lavoro e la legge Biagi, che un ministro del Pd dell’ultimo governo Prodi, Cesare Damiano, si accontentò di aggiustare in aspetti secondari, come concessione ai furori della vaporosa maggioranza dell’Unione.

Articolo 18: lo cambiò la riforma Fornero, non il Jobs act

L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970 – con appresso la tutela reale della reintegra – è stato per anni al centro di un conflitto sociale durissimo, divenuto nel tempo oggetto di una difesa ideologica da parte della sinistra politica e sindacale, che individuò in Sergio Cofferati, allora leader della Cgil, il Cid Campeador di quella battaglia. L’articolo 18 non è mai stato abolito: fu “novellato” nell’ambito della riforma Fornero del mercato del lavoro (legge n.92 del 2012) tuttora in vigore. Il nuovo articolo 18 – con qualche arzigogolata flessibilità a proposito del licenziamento economico/per motivi oggettivi – rappresenta oggi la disciplina generale vigente in materia di licenziamenti individuali illegittimi. Questa legge “Fornero” si è giovata di una rendita di posizione. È stato tanto grande il rancore e l’odio sociale scatenati contro la riforma delle pensioni che i persecutori dell’ex ministro si sono dimenticati della legge n.92.

Il contratto a tutele crescenti

Poi è venuto, nel 2014, il Jobs act, nel cui ambito è stato varato il dlgs n.23/2015, che non è intervento per modificare ulteriormente Sua Santità l’art.18, ma ha introdotto una nuova tipologia contrattuale (il contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti), in sostanza parallela a quella consueta, applicabile ai nuovi assunti a partire dall’entrata in vigore del decreto.

La nuova disciplina ha individuato forme di tutela obbligatoria solo per talune fattispecie di licenziamento ingiustificato, pur confermando l’obbligo di reintegra nei casi più gravi. Comunque, se dovesse tornare al governo, Orlando potrà risparmiarsi l’onere di una rivisitazione del decreto, visto che ci ha già pensato la Corte Costituzionale a cassare alcune importanti innovazioni introdotte in quel contratto, come la prevedibilità per l’azienda dei costi di un licenziamento, ragguagliati all’anzianità di servizio. Ma la curiosità per la svolta antiliberista del Pd ci spinge ad approfondire il problema risalendo a quel programma elettorale che “finalmente” sarebbe riuscito, secondo Letta, ad andare oltre il jobs act.

Il programma del Pd e il modello spagnolo

“La lotta al precariato – si legge – con un intervento sui contratti a tempo determinato, sul modello di quanto fatto in Spagna, riproponendo la necessità di introdurre la causale fin dall’inizio del rapporto di lavoro, valorizzando la contrattazione collettiva, rendendo strutturalmente più vantaggioso il contratto a tempo indeterminato rispetto a quello a tempo determinato”.

Nel programma del Pd sono poi indicate delle modalità tecnico-normative per realizzare questo obiettivo che, tuttavia, non ricalcano quasi nulla del modello spagnolo (“E noi faremo come le Spagna…”). La recente riforma dei contratti a termine (che ammontavano al 25% dei rapporti di lavoro, tanto che la Ue ha subordinato la revisione all’erogazione della prima rata del Recovery Fund) attuata dal governo Sanchez stabilisce che il ricorso a questa tipologia non possa durare più di sei mesi (o un anno in presenza di accordi collettivi) e per una utilizzazione di non più di 90 giorni in un anno. C’è però tra noi e la Spagna una piccola differenza che riguarda in via prioritaria le norme del licenziamento. Quando è facile licenziare lo diventa anche assumere.

In Spagna, se il Giudice del lavoro, su ricorso del lavoratore, ritiene il licenziamento come “improcedente” (illegittimo) condanna l’azienda a pagare al dipendente licenziato un’indennità pari a 33 giorni di salario per ogni anno di servizio, fino a un massimo di 24 mensilità. Non occorrono molte spiegazioni per individuare le differenze con l’ordinamento del recesso vigente in Italia, anche facendo riferimento all’eretico contratto a tutele crescenti.

Perché prendersela con il contratto a termine?

Poi, a me sembra fondata la critica contenuta nel Programma del Terzo Polo a proposito del decreto Dignità (che è stato congelato a furor di popolo durante la pandemia): perché prendersela con il contratto a termine, che in fondo è la forma precaria più tutelata? Si lamenta che tale contratto viene usato anche per brevi periodi. Perché si sono aboliti i voucher costringendo le aziende a ricorrere ad altre forme, magari meno pertinenti?

Con la nuova disciplina meno liti e più conciliazioni

Quanto alla disciplina dei licenziamenti ingiustificati, lo stesso Orlando definisce il ripristino dell’articolo 18 “anacronistico” (come lo ius primae noctis?). Farebbe bene però a rendere pubblici gli esiti positivi della nuova disciplina. Ci ha pensato Pietro Ichino sul suo sito, pubblicando la sottostante tabella, dalla quale emerge un vero e proprio crollo del contenzioso in materia di licenziamento.

Il calo dei procedimenti ISCRITTI A RUOLO anno per anno (settore privato)

“I dati che emergono dal censimento permanente dei procedimenti giudiziari in materia di lavoro – scriveva Ichino nel 2017- sono impressionanti. È già di per sé notevolissima la riduzione del numero complessivo delle liti davanti alle sezioni specializzate, nel settore privato: dal 2012 al 2016 sono diminuite di un terzo. Ma ancora più drastica è la riduzione in atto, nello stesso settore, delle liti in materia di licenziamenti e di contratti a termine: nello stesso quinquennio il numero di questi procedimenti giudiziali si è ridotto del 69%”.

“L’altra cosa, non meno importante, su cui dobbiamo interrogarci – proseguiva Ichino – è il significato di questo fenomeno, che i tecnici indicano con l’espressione “deflazione del contenzioso” e che si manifesta in queste dimensioni soltanto nel settore del lavoro privato (nel settore pubblico il contenzioso, sempre di competenza dei giudici del lavoro, nello stesso quinquennio si è ridotto soltanto del 13 per cento, a fronte di una riduzione anche della platea interessata). Per individuare con precisione la causa del fenomeno occorrerà esaminare pure i dati relativi agli anni precedenti al 2012, ancora non disponibili. Sulla riduzione dei procedimenti in materia di licenziamenti è comunque ragionevole ipotizzare che abbia fortemente influito la nuova disciplina contenuta nella stessa legge del 2012 (la riforma Fornero, ndr): essa, infatti, ha ridotto la “posta in gioco”, limitando drasticamente la discrezionalità del giudice nel disporre la reintegrazione nel posto di lavoro e ponendo dei limiti precisi, da 12 a 24 mensilità, al risarcimento ottenibile dal lavoratore nel caso di sentenza favorevole, che invece prima era illimitato e poteva raggiungere cifre colossali nel caso in cui il procedimento si fosse protratto per molti anni. Ridurre la posta in gioco significa ridurre l’alea del giudizio, quindi rendere più facile la conciliazione tra le parti, che evita la lite giudiziale. Corrispondentemente, infatti, fin dal 2013 si era avuta notizia di un brusco aumento delle conciliazioni, soprattutto in materia di licenziamento per motivo “oggettivo”, cioè economico od organizzativo”.

Infine, Ichino conosceva bene i suoi polli. E presagiva: “Non mancherà, prevedibilmente, chi indicherà in questo calo dell’attività di avvocati, giudici e cancellerie una conferma di quello “smantellamento delle protezioni”, che dalla legge Treu del 1997 in poi viene immancabilmente denunciato a ogni nuova legge in materia di lavoro”. Si direbbe che il giurista sia stato buon profeta. Ma, da par suo, concludeva: “Ciò che stiamo smantellando è solo la peculiarità negativa del nostro Paese, per cui fino a qualche anno fa ogni licenziamento generava quasi automaticamente una controversia giudiziale. L’unica categoria che ne traeva sicuramente un cospicuo beneficio era il ceto forense”.

Il calo dei procedimenti DEFINITI dai giudici del lavoro anno per anno (settore privato)
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