Andare alla “Bottiglieria” del Pigneto, il quartiere di ‘Accattone’ e di Pier Paolo Pasolini, set dell’indimenticabile “Roma città aperta” di Roberto Rossellini con Anna Magnani e Aldo Fabrizi, enclave del più caratteristico animo popolare Romanesco, e, di notte, rituale tappa della movida Romana più trendy, è come entrare al Palazzo di vetro dell’ONU. Ad animare la cucina di questo ristorante che in dieci anni si è conquistato una fama che va ben oltre l’animata vita gastronomica del quartiere romano, è un trentanovenne portoghese, Joao Monteiro, molto pacato nei modi, molto soft, molto più ragazzo della sua età, uno che ti si presenta con questo biglietto da visita: “Sono Nato a Oliveira de Azemeis, provicia de Aveiro, in autunno, la stagione delle vendemmie, in settembre il mese dei fichi”. Dal ché già si capisce che cucina e natura sono le due componenti base del suo gruppo sanguigno.
Un portoghese al Pigneto, sembra quasi il titolo di un film della serie Romanzo Criminale, e invece è una lunga storia che passa fra vecchio e nuovo continente di un ragazzo che dalla primissima infanzia si trova catapultato da Oliveira de Azemeis, una città nel nord del paese, fra parchi, cascate spettacolari, fiere di antichità, boschi all’industrialissima Boston dove il padre ex calzolaio aveva trovato lavoro in un’impresa. Ma a pochi mesi dalla sua nascita, suo padre, a 40 anni, subisce un grave infortunio sul lavoro che lo fa diventare pensionato precoce. Le condizioni di vita diventano dure. Alla fine, dopo qualche anno, non resta che tornare in Portogallo. La madre prende in gestione un negozio di alimentari di famiglia, il padre fa le consegne, e nel tempo libero coltiva la terra e fa il boscaiolo. Nasce nei boschi di Oliveira la passione di Joao per la natura, per le erbe, per tutto ciò che è selvaggio, soprattutto per l’infinita gamma cromatica delle inflorescenze che lo attirano come un quadro impressionista e che ritroveremo successivamente nella sua cucina. “Ogni anno dopo la chiusura della scuola, mio padre mi portava in Portogallo per tutta l’estate dove passavo tutti i giorni a correre nei boschi e nei campi insieme ai miei cugini era un bel contrasto per me vivendo in un ambiente più urbano come quello della periferia americana, vivere nella campagna del litorale portoghese”. E in questo andirivieni Joao familiarizza con le lingue, parla inglese a scuola, (“avevo quasi 9 anni e per essere sincero non è stato facile per me adattarmi, una cosa era trascorrere le estati, un’altra era vivere lì stabilmente, è stato difficile l’adattamento alla scuola, culturalmente era molto difficile e gli altri bambini erano diffidenti di questo ragazzino che in molte cose era diverso da loro”) e portoghese in famiglia. Il suo bilinguismo gli tornerà utile nell’apprendere poi altre lingue come lo svedese e poi l’italiano.
L’apprendimento delle lingue, la conoscenza di due realtà continentali così contrapposte fin da piccolo gli avevano messo dentro una curiosità spinta per la conoscenza delle cose, coltivava una grande passione per la musica, per il cinema (“per un po’ ho pensato di fare il regista però immaginavo tutte le difficoltà e provenendo da un paesino piccolo mi sembrava che il mondo del cinema fosse lontano e irraggiungibile”) ma anche per la scrittura, voleva diventare un giornalista che scriveva del mondo dello spettacolo.
Ma l’impatto con la realtà industriale americana gli lasciava un certo disagio, si sentiva lontano da quel mondo tutto prati, parchi, cascate d’acqua che aveva conosciuto d’estate, il mondo dei suoi genitori.
A sei anni registra il suo primo ingresso in cucina. Sua madre era solita preparare i pancake la domenica mattina, unico giorno di riposo che aveva. “Quest’abitudine di mangiare i pancake mi faceva alzare alle 6 del mattino perché non vedevo l’ora. Ma alla terza settimana di lavoro lei ha deciso di scrivermi la ricetta su un foglio di carta cosi li potevo fare da solo. Ricordo benissimo: erano tutto meno pancake. Avevo seguito la ricetta e seguito le indicazioni di mia madre ma qualcosa era andato male sicuramente nella cottura. D’aspetto brutti ma con lo sciroppo d’acero erano la cosa più buona che avessi mai mangiato Guardando indietro è stata una mossa rischiosa da parte di mia madre ma penso che dopo che hai avuto 5 figli non hai più paura di niente, aveva una consapevolezza che lasciare un bambino piccolo da solo in cucina non sarebbe stata la fine del mondo e che niente di grave sarebbe potuto successo”.
E così il mondo della cucina sboccia a mano a mano negli States. “E’ stato negli Stati Uniti dove ho avuto il primo contatto con cucine di culture diverse dalle mie come per esempio quella cinese e a un certo punto come quella italiana, anche se raramente le mangiavo: mio padre era un ottimo cuoco, e a casa si mangiavano soprattutto i piatti della tradizionale portoghese”.
Il piccolo Joao comincia a sentire piu lontane le sirene del giornalismo e dello spettacolo, e più vicine quelle della cucina. “Da piccolo mi è venuta una vera e propria ossessione per i programmi di cucina. in particolare quelli di Julia Child con la sua cucina classica francese mi ha marcato in un modo molto profondo che solo anni dopo quando ho cominciato a fare i miei primi passi in cucina mi sono veramente reso conto di quando quella esperienza vissuta cosi piccolo avrebbe influenzato tutta la mia vita”.
Nel 1990 i suoi genitori decidono di lasciare definitivamente Boston e tornare in Portogallo. Joao ha nove anni.
Alle superiori, quando arriva l’ora di scegliere il percorso da seguire è indeciso. Da una parte pensa ancora al giornalismo “che mi ha sempre affascinato” dall’altra a un percorso scientifico più gettonato dai suoi compagni “ma onestamente non ero entusiasta di nessuna delle due opzioni”. La scelta cade infine sullo scientifico “però non avevo idea che avrei fatto dopo, speravo soltanto che con il passare del tempo qualche idea si sarebbe materializzata”. Ma alla metà del secondo trimestre mentre ascoltava senza alcun interesse la professoressa di matematica gli balugina in mente un film già visto anni prima, quando un cugino più grande gli mostrò dei “pamphlet “ di una scuola di cucina. Aveva voglia di esprimersi con qualcosa di più impegnativo di un pankake. E d’altronde a 11 anni aveva chiesto esplicitamente ala madre di metterlo alla prova cominciando a cucinare il pranzo per tutti. Le chiese istruzioni per iniziare con qualcosa di semplice e basilare. E lei gli diede la ricetta del riso in bianco tipo pilaf che è un contorno molto popolare nella cucina portoghese. “La ricordo ancora: così dettagliata come la descrisse lei, anche perché ancora la uso: mezza cipolla tritata con una foglia de alloro e olio de oliva soffriggere fino che la cipolla diventa quasi trasparente e aggiungere 2 bicchiere de acqua (quantità per 4 persone) condire con un cucchiaio de sale non abbondante e un’altra di olio di oliva quando l’acqua comincia a bollire mettere un bicchiere di riso, aspettare che la acqua prende di nuovo a bollire dopo di che si abbassa la fiamma al minimo, si copre e cuoce per circa 15 min. Senza girare è venuto perfetto e ancora oggi ci tengo molto al mio riso pilaf, per me e un po’ come la prova dell’omelette nelle cucine francesi. Per capire quanto è bravo un cuoco appena arrivato, gli faccio sempre fare il riso pilaf”.
Anche il cugino dei pamphlet cucinava, “pero lui non ha mai portato avanti l’iea di farlo di mestiere, a me invece ha fatto accendere in testa una lampadina, cucinavo a casa pranzo e cena da diversi anni e l’idea di farlo come lavoro mi piaceva proprio tanto, non ero mai stato cosi entusiasta e motivato prima di quel momento”. Ne parla col padre che non si mostra affatto entusiasta. “Fare il cuoco in quei tempi non era ancora visto con una professione di prestigio era più una cosa per ex carcerati, gente che non poteva fare altro, se non essere nascosta in una cucina lontano dagli occhi di tutti”. Ma Joao non demorde. Passa il suo tempo libero sperimentando ricette di un vecchio libro di cucina francese che aveva trovato a casa di un parente. “Mi faceva ricordare me da piccolo seduto per terra davanti alla tv guardando le vecchie puntate de Julia Child”. Il film ovviamente è a lieto fine. Joao ottiene dal padre di poter lasciare gli studi scientifici e di potersi iscrivere alla scuola de “Hotelaria e Turismo do Porto” e contemporaneamente nei weekend a fare degli extra nei gran alberghi della città di Porto. Inizia una nuova avventura ma anche una nuova vita per il giovane Monteiro che riesce finalmente a sentirsi appagato da questo nuovo mondo. Il primo passo obbligato per la sua formazione è la scuola alberghiera “escola de hotelaria do Porto cozinha e pastelaria”(corso de cucina e pasticceria). Di qui parte per uno stage nell’albergo “Pousada de Barão de Forrester” in Alijó e poi uno nell’albergo “Pousada Santa Maria do Bouro” in Amares. Ma il vero apprendistato avviene poi al Meridien park Atlantic e all’Hotel Sheraton di Porto. Fattosi le ossa in Portogallo può sbarcare, meglio sarebbe dire, ritornare negli Stati Uniti dove fa esperienza e si irrobustisce in diversi ristoranti. Poi nel 2007 vola di nuovo sull’Atlantico, lo troviamo in Svezia in una città chiamata Norrköping. “Dopo anni che avevo lavorato in Portogallo con la cucina tradizionale e negli Stati Uniti in ristoranti detti Italiani (una cucina di qualità però più una cucina italo-americana) ho cominciato a lavorare come sous chef con lo Chef Daniel Garcia nel ristorante “Anima”. Lui è uno chef catalano con una lunga carriera in ristoranti fine dinning e stellati. Con lui è nato un rapporto più che professionale, anche per il fatto che siamo tutte due iberici e che siamo arrivati in Svezia praticamente contemporaneamente. Siamo diventati grande amici, è stato lui mio mentore, ed è stato lui a farmi veramente capire che in cucina tutto è possibile e che l’unico limite è la nostra immaginazione”.
Con questo bagaglio gastronomico multiculturale eccolo alla fine approdare in Italia. Attirato forse dalle esperienze che aveva fatto presso i ristoranti italiani negli Stati Uniti. Joao si insedia alla Bottiglieria del Pigneto con la voglia di affermare una sua linea culinaria. La sua formula è non stop, aperta dalla mattina fino a notte inoltrata dalle colazioni al brunch, dall’aperitivo alla cena alla carta, fino al cocktail bar del dopocena. In breve tempo la “Bottiglieria” del Pigneto si afferma come una tappa obbligata nel cuore dello storico quartiere popolare romano e da dieci anni la sua fama è andata sempre più consolidandosi.
Il suo approccio con il cibo rispetta la sua filosofia di vita. In primis è condizionante il suo legame con la terra e il rispetto per la natura, rimembranze delle sue estati portoghesi con il nonno. Monteiro lo spiega così: “apprezzo il passare del tempo, quello che porta a una determinata materia prima e a come potrei utilizzarla e in che contesto. Per esempio la stagionatura dei latticini e delle carni per fare formaggi e salumi, solo per il fatto di essere fatta in due luoghi diversi fa si che abbiano due sapori diversi anche se la materia prima è la stessa e questo è semplicemente per gli elementi presenti come la topografia e il tempo trascorso. La storia e le tradizioni del luogo, potrebbero essere un criterio per scegliere un prodotto rispetto a un altro. Anche considerare il tipo d’acqua presente in una regione che è usata per irrigare la terra, dove viene coltivato un ortaggio o l’erba che viene mangiata dall’ animale ha un ruolo importante come anche la geografia, perché un prosciutto stagionato in un determinato posto è diverso da un altro se non altro per la distanza dal mare o l’altitudine o per la vita che ha vissuto in generale. L’altro criterio è la consapevolezza della cultura e della storia del posto, la ricerca e lo studio di questi criteri che ho sempre in mente quando creo nuovi piatti cosi facendo nasce un legame tra il vecchio e il nuovo. Con questi elementi in mente non corro il rischio di diventare solo “trendy” perché c’è un filo condottole tra la tradizione e l’innovazione”. Si muove dunque su questi binari Joao Monteiro quando crea concetti per piatti nuovi con la consapevolezza che cucinare a Roma è diverso dal cucinare in Svezia, o negli Stati Uniti o in Portogallo, e questo non perché i piatti sono diversi ma perché la somma di tutti questi criteri insieme alla storia che raccontano e che rappresentano sono diversi e di conseguenza sono diversi anche come vengono vissuti e consumati. “Tenendo tutto questo in mente posso così comunicare meglio il sentimento che vorrei trasmettere”.
Primo fra tutti quello che lo anima sopra ogni altra cosa, affermare una grande etica del lavoro, fatta di tempi lunghi, pazienti, di paziente, curiosità e di amore per le sfide.
Dai suoi fornelli esce così una cucina semplice (Tartare di anatra al bourbon con noci caramellate, uva e rafano, Pici ajo, ojo e peperoncino con pesto di mandorle e tartare di gambero rosso di Mazara, Gnocchi sardi con cozze e fonduta di piacentino ennese, Galletto arrosto in salsa thai con spadellata di verdure rosticciate, Salmone delle isole Faraoe con madley di rape e agrumi, olive essiccate e salsa alla panna acida, Tataki di tonno in crosta di nocciole con insalata nizzarda) in cui evita di mettere elementi che non siano essenziali per la storia che intende raccontare soprattutto una cucina del territorio “perché cerco per motivi etici di evitare sprechi di risorse anche quello del combustibile usato nel trasporto delle materie, cerco anche di usare tutto il prodotto sia animale sia quella vegetale. Detesto gli sprechi, lo trovo una mancanza di rispetto per la materia prima e per la natura il generale”. Inutile dire che la stagionalità è il suo credo principale “perché la natura sa meglio di me quando qualcosa è al suo picco di qualità”, una cucina che alla fine diventa la somma di tutti i suoi viaggi, della sua storia e delle esperienze vissute “perché in ogni piatto c’è un pezzo di me, con i miei piatti racconto con sincerità e umiltà la mia storia”.
Cucinare per lui diventa pertanto un atto di altruismo. “Quando cucino metto da parte il mio ego. Non mi interessa diventare famoso, ma trasmettere qualcosa agli altri”. E indubbiamente per uno che ha questo tipo di presupposti culturali in cucina, il Pigneto è stata una tappa quasi obbligata. Se cucinare è un modo di comunicare, di mettere in connessione le persone, i sapori e le varie culture del mondo, in questo popolare quartiere di Roma, queste culture si intersecano, si incontrano, si frammistano, come i flussi di quella movida che non fa differenza fra età, classe, colore, credo e appartenenze. Forse avevamo sotto gli occhi un nuovo modo di stare insieme e il Covid ce lo ha fatto riscoprire. Ma Joao c’era arrivato prima.