Jan Fabre torna a Venezia, con un progetto inedito, appositamente studiato per gli spazidell’abbazia di San Gregorio, situata tra il ponte dell’Accademia e la punta della Dogana.
Evento collaterale della 57. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, fino al 26 novembre 2017, la mostra Jan Fabre. Glass and Bone Sculptures 1977-2017, curata da Giacinto Di Pietrantonio, Katerina Koskina e Dimitri Ozerkov, promossa dalla GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo, in collaborazione con EMST – National Museum of Contemporary Art di Atene e The State Hermitage Museum di San Pietroburgo, presenta oltre 40 sculture di Jan Fabre (Anversa, 1958), in grado di ripercorrere la sua ricerca fin dalle origini, innescando una riflessione filosofica, spirituale e politica sulla vita e la morte attraverso la centralità della metamorfosi.
Per la prima volta, saranno riuniti insieme lavori in vetro e ossa, realizzati nell’arco di un quarantennio, tra 1977 e il 2017.
Affascinato dall’alchimia e dalla memoria dei materiali, Jan Fabre si è ispirato alla tradizione pittorica dei maestri fiamminghi che erano soliti miscelare ossa triturate con i pigmenti colorati e all’artigianalità dei vetrai veneziani. L’artista ha deliberatamente scelto questi due materiali duri, che sono forti a dispetto della loro delicatezza e fragilità, per mettere in risalto la durezza e la fragilità della vita stessa.
“La mia idea filosofica e poetica – ricorda Jan Fabre – che riunisce assieme il vetro con le ossa umane e animali, nasce dal ricordo di mia sorella che da bambina giocava con un piccolo oggetto di vetro. Questo mi ha fatto pensare alla flessibilità dell’osso umano in confronto con quella del vetro. Alcuni animali e tutti gli esseri umani escono dal grembo materno come il vetro fuso esce dal forno di cottura. Tutti possono essere modellati, curvati e formati con un sorprendente grado di libertà”.
I due materiali modellano parti e insiemi di corpi umani e animali: a volte, questi mantengono la loro naturalezza cromatica; altre volte, sono dipinti con il colore blu tipico della penna a sfera Bic che l’artista usa da anni per raccontare l’Ora Blu, ovvero quel momento crepuscolare in cui avviene il passaggio dalla notte al giorno o viceversa, che segna il punto di confine e di mutamento del tempo naturale.
“Infatti – afferma Giacinto Di Pietrantonio – al titolo Glass and Bone, potremmo aggiungereBlue Bic Ink. La materia, nel lavoro di Fabre, non è celebrata in senso fenomenico, ma è usata come messaggera di arcane simbologie connesse con la sua essenza stessa. Nella sua ricerca, Fabre non persegue un’arte che valuta la storia come prodotto del presente, ovvero della sociologia, quanto come lotta che si dispiega all’interno di una materia la cui memoria si è dissolta nelle profondità del tempo”.
La dialettica tra ossa e vetro, che è poi quella che s’instaura, ad esempio, tra durezza e fragilità, tra opacità e trasparenza, tra ombra e luce, tra tangibile e intangibile, tra vita e morte, è al centro della poetica di Fabre. Quella dell’artista fiammingo è un’arte che ruota attorno all’instabile stato della metamorfosi e ai cambiamenti nel flusso dell’esistenza. Come il vetro, anche le ossa non sono indistruttibili. Al pari del vetro, le ossa si spezzano mostrando la fragilità e precarietà umana.
“Le sculture in vetro e ossa di Jan Fabre – dichiara Katerina Koskina – sono una tacita allusione alla brevità della vita sulla terra e alla nostra mortalità. Allo stesso modo, la connessione tra ossa e vetro allude alla fragilità e alla caducità dell’esistenza umana. Le ossa e la lucentezza del vetro, rispettivamente simboli di morte e di opulenza, condividono la precarietà della vita umana che ha solo un breve sprazzo di tempo nel quale godere della bellezza prima che il corpo si trasformi in uno scheletro”.
Dal canto suo, Dimitri Ozerkov sottolinea che “Fabre cristallizza sia le ossa che il vetro e li rende sacri. E fa lo stesso con l’esistenza umana nella sua mistica presenza temporale nella realtà, guidata dall’immaginazione. Per lui, l’immaginazione artistica è la prova più evidente dell’esistenza umana, e la trova da qualche parte, tra le ossa e il vetro, tra il corpo e l’anima”.
Lungo tutta la sua carriera, Fabre si è sempre confrontato con questi due materiali; fin dal 1977, quando realizzò The Pacifier, un ciucciotto realizzato in osso, ma avvolto da schegge di vetro che non può essere usato a meno che non ci si voglia ferire. E di vetro era l’altare primitivo di ossa umane di The Future Merciful Vagina and Phallus (2011) sulla cui sommità c’erano un osso pelvico e un fallo.
Nella ricerca di Jan Fabre, le ossa si associano alla morte. Nella Pietas, presentata durante la Biennale d’Arte del 2011 alla Nuova Scuola Grande di Santa Maria della Misericordia a Venezia, che riproduceva in scala 1:1 la Pietà di Michelangelo, il volto della Madonna era stato sostituito da un teschio, immagine della morte.