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Jackson Hole, per i banchieri centrali un tranquillo week end di paura per la Cina e non solo

Tradizionale meeting mondiale nel fine settimana dei banchieri centrali – Non c’è solo la Cina a preoccuparli ma la discesa lenta dell’inflazione, il futuro dei tassi e il rischio di recessione

Jackson Hole, per i banchieri centrali un tranquillo week end di paura per la Cina e non solo

Non sarà un weekend di svago quello che attende Jerome Powell nel resort di Jackson Hole, nel cuore del Wyoming, tradizionale sede dell’incontro tra i banchieri organizzato dalla Fed di Kansas City. La leggenda vuole che per convincere Paul Volcker, il mitico numero uno della Fed che sconfisse l’inflazione anni Ottanta, a partecipare ai lavori gli organizzatori scelsero questo resort traversato da ruscelli ricchi di trote, un richiamo irresistibile per il banchiere appassionato di pesca. Ma stavolta l’avvocato Powell non avrà molto tempo da dedicare ai pesci. A lui toccherà venerdì il discorso più delicato, forse il più delicato per un banchiere centrale da 15 anni a questa parte. Per la banca centrale Usa, dirà, non è ancora arrivato il momento di abbassare la guardia. Ma guai a sottovalutare i segnali di tensione che stanno mettendo sotto pressione i mercati innervositi da sinistri richiami al passato prossimi.

Il crollo di Evergrande spaventa ma non sarà un caso Lehman Brothers

Gli scricchiolii in arrivo dall’immobiliare cinese, innanzitutto, riportano alla memoria la crisi dei subprime del 2007/08 sfociata nel tracollo di Lehman, ferita ancora aperta per la finanza mondiale. Certo, la situazione è molto diversa: uno studio della Bce stimava nel 2022 che una crisi finanziaria in Cina ha un impatto sui mercati due volte inferiore ad un ribasso in Usa. Ma l’effetto sul business è comunque rilevante. Nel 2007/08 fi proprio la Cina ad assumere il ruolo di locomotiva delle economie, facilitando l’uscita dalla crisi. 

Le analogie poi non finiscono qui: la scorsa settimana il T bond decennale americano ha toccato un rendimento del 4,34%, il massimo dal 2007. In contemporanea, il livello dei mutui è salito al 7.09%, più del doppio del 3% toccato ai tempi dei tassi a zero. È questo il dato che inquieta di più i mercati finanziari. Gli operatori davano per scontato che la stagione dei tassi alti fosse agli sgoccioli. Ma questa quasi certezza si è infranta nelle ultime settimane. Per più ragioni: 

  1. Il mercato del lavoro si mantiene robusto. A luglio il tasso di disoccupazione è ridisceso al 3,5%: Le offerte di lavoro non soddisfatte dalla domanda sfiorano i dieci milioni. In questo quadro, è l’opinione della Fed, è quasi impossibile frenare la spinta all’aumento del costo del lavoro. Una conferma potrebbe arrivare dalla vertenza tra i Big di Detroit ed il sindacato Uaw che si annuncia molto complessa. Le tute blu, dopo tre contratti “moderati” minacciano una lotta dura.
  2. Gli aumenti dei tassi non hanno frenato la corsa dei consumi, come dimostrano le trimestrali di Wal-Mart o di Target.
  3. Nonostante la minor richiesta da parte di Pechino, il prezzo del petrolio tende a salire a fronte della riduzione dell’offerta di petrolio da parte di Russia e Arabia Saudita.

Lotta contro inflazione Usa: un quadro complicato

A questi fattori che consigliano di non abbassare la guardia si aggiunge un altro ostacolo. La Fed non è stata certo favorita nella lotta contro l’inflazione dalla politica economica dell’amministrazione Biden. 

  • Il buon andamento dell’economia (+2,4% a metà anno, in crescita secondo le ultime proiezioni) è dovuta in buona parte all’espansione della spesa pubblica: il deficit è del 5,8% ma l’anno prossimo, condizionato dalla battaglia delle presidenziali, salirà al 6,4%.
  • Il piano IRA per il rilancio della competitività dell’economia Usa si sta rivelando assai più costoso del previsto: le stime del congresso un anno fa calcolavano una spesa complessiva di 400 miliardi spalmata in dieci anni. Dopo 12 mesi, la stima è già salita a 660 miliardi.
  • Di qui il forte incremento delle richieste del Tesoro che in sede di asta ha chiesto più di mille miliardi di dollari (contro 444 di un anno fa). Un’operazione che coincide nel tempo con la manovra della Fed di ridurre al ritmo di 60 miliardi al mese i titoli accumulati negli anni dell’espansione monetaria. 

Insomma, un quadro complicato in cui sale l’attesa per le parole di Powell. Il banchiere centrale non potrà limitarsi a ribadire la necessità di non abbassare la guardia nella lotta contro l’inflazione. A lui, anche se non solo a lui, tocca l’onere di far qualcosa disinnescare gli effetti delle bombe ad orologeria che, non solo a Pechino, minacciano la congiuntura. Speriamo che sappia quali pesci pescare nelle rapide di Jackson Hole. 

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