La scorsa settimana il professor Stefano Luconi, docente di Storia americana a Padova, è intervenuto su FIRSTonline sul significato della scelta di Kamala Harris di chiamare il governatore del Minnesota, Tim Walz, ad affiancarla nella corsa alla Casa Bianca.
Oggi Luconi interviene sul senso della scelta di J. D. Vance come candidato vicepresidente nel ticket del Partito repubblicano. Una scelta che ha più un significato prospettico che tattico e che dice molto sul futuro posizionamento del GOP nel caso di un successo di Trump nelle elezioni di novembre.
La corsa
La nomina di Tim Walz come proprio vice è stata pensata da Kamala Harris soprattutto per bilanciare il ticket democratico: a una donna ritenuta progressista, di ascendenza indiana e africana nonché espressione di una realtà urbana quale quella californiana è stato affiancato un uomo bianco moderato e portavoce della provincia rurale statunitense. Invece, scegliendo il senatore federale dell’Ohio J.D. Vance come proprio numero 2, Donald Trump ha dimostrato di non voler designare un politico dal profilo complementare al suo.
Vance e Trump, gemelli diversi?
Vance potrebbe sembrare un clone del tycoon, ancorché molto più giovane (40 anni appena compiuti contro i 78 dell’ex presidente), maggiormente fotogenico, meno soggetto a tentazioni eversive e con la fedina penale immacolata.
Inoltre, sebbene si sia laureato in giurisprudenza in un’università privata particolarmente prestigiosa e costosa come Yale e abbia lavorato nel settore del venture capital, Vance si atteggia a esponente di un ceto medio e di una classe operaia del Mid West americano, impoveritisi in conseguenza della globalizzazione che ha provocato la delocalizzazione degli impianti industriali all’estero.
Sono queste le coorti di votanti che hanno costituito la principale base elettorale di Trump sia nel 2016 sia nel 2020 e sulle quali The Donald continua a fare affidamento per sconfiggere Harris il prossimo novembre.
La candidatura di Vance è, pertanto, un prodotto della strategia innovativa che Trump ha attuato fino dall’annuncio della sua prima corsa per la Casa Bianca nel 2015. Non serve a strappare al partito avversario i moderati e gli indecisi, stemperando le opzioni programmatiche più estremiste per allargare la base dei consensi, secondo i canoni invalsi nelle campagne elettorali a partire dalla metà degli anni Settanta del Novecento.
L’assegnazione della nomination per la vicepresidenza a Vance è piuttosto finalizzata a rafforzare l’attrattiva del ticket repubblicano su quei votanti potenziali più radicali che in passato si sono astenuti perché non si sono sentiti rappresentati dai due maggiori partiti.
Vance è, dunque, la personificazione della volontà di Trump di caratterizzarsi apparentemente come una personalità alternativa alla politica convenzionale e ai suoi giochi di potere, rifiutando la logica del compromesso che, a suo dire, contraddistinguerebbe l’élite di Washington e la renderebbe sorda alle reali esigenze del popolo americano.
Un partito repubblicano sempre più trumpista
Vance è l’incarnazione di questo approccio pure rispetto alle dinamiche in seno al partito repubblicano. Trump, infatti, si è rifiutato di selezionare il proprio vice tra i suoi sfidanti nelle primarie. Non ha seguito il modello applicato, per esempio, nel 1980 da Ronald Reagan, che aveva voluto come suo numero 2 George H.W. Bush, dopo avergli strappato la nomination repubblicana per la Casa Bianca, in maniera da mostrarsi inclusivo nei confronti della minoranza del proprio partito.
Trump non ha scelto l’ex governatrice del South Carolina Nikki Haley, anche lei di ascendenza indiana come Harris, una figura che, oltre a ridimensionare le accuse di maschilismo e appiattimento sulle rivendicazioni dei bianchi rivolte alle politiche di The Donald, avrebbe aiutato a riassorbire almeno in parte il dissenso interno al partito.
Sebbene nel 2016 Vance avesse manifestato il timore che il tycoon potesse rivelarsi un “Hitler americano”, si è poi rapidamente convertito al trumpismo a tal punto che l’ex presidente lo ha sostenuto nella sua vittoriosa campagna per il Senato nelle elezioni di mid term del 2022.
In altre parole, preferendo Vance, a Haley o al governatore della Florida Ron DeSantis, l’altro suo sfidante nelle primarie, Trump ha voluto dimostrare di avere forgiato il partito repubblicano a propria immagine e somiglianza, rifuggendo da cedimenti nei confronti dei suoi contestatori all’interno di questa formazione politica.
Il trumpismo oltre Trump
Al di là delle intenzioni dell’ex presidente e forse andando perfino oltre ai progetti dell’egocentrico tycoon, la candidatura di Vance si configura come una garanzia agli occhi degli elettori più conservatori per assicurare un’eredità del trumpismo nel futuro.
Qualora riuscisse anche a battere Harris, Trump sarebbe comunque costretto a lasciare la Casa Bianca all’inizio del 2029 in ottemperanza al limite dei due mandati. A prescindere dalla vittoria o dalla sconfitta dei repubblicani nelle presidenziali di novembre, quindi, Vance – nell’attuale veste del più probabile candidato del partito alla Studio Ovale tra quattro anni – sembra pure il più accreditato prosecutore della politica di Trump.
In realtà, però, le posizioni del senatore dell’Ohio non sono una fotocopia di quelle dell’ex presidente e, più che un esponente del movimento Make America Great Again (MAGA), Vance si profila come il leader emergente di una Nuova Destra. Soprattutto in conseguenza delle sconfitte di Ted Cruz del Texas e Marco Rubio della Florida nella corsa per la nomination del 2016, questo gruppo, che annovera altri senatori federali come Tom Cotton dell’Arkansas e Josh Hawley del Missouri, ha preferito non contendere la leadership a Trump, come ha invece cercato di fare Ron DeSantis nelle primarie dello scorso inverno, ricavandone solo una cocente débâcle.
È, invece, saltato sul carro dell’attuale vincitore dello scontro per l’anima del conservatorismo in modo da porsi nella condizione migliore per imprimergli una svolta ancor più radicale, principalmente attraverso le guerre culturali, il conflitto di valori tra una tradizione reazionaria e una visione progressista che ha contribuito alla drammatica spaccatura odierna della società statunitense.
Il presupposto da cui muove la riflessione della Nuova Destra è quello secondo cui sviluppi come l’integrazione dei mercati mondiali, il rapido susseguirsi delle innovazioni tecnologiche e il completamento dell’emancipazione dei comportamenti sessuali, anziché essere fattori di avanzamento della società, come sostenuto dai progressisti, si configurerebbero quali elementi di decadenza.
Di qui, da parte di Vance, la difesa del valore della famiglia, l’incoraggiamento a sposarsi e ad avere figli nonché la visione del matrimonio, non come un contratto legale, ma come un’unione sacra e auspicabilmente durevole, tutte valutazioni che non solo lo hanno portato a entrare in polemica con le “gattare senza figli” di orientamento democratico, ma che sicuramente non lo collocano neppure in particolare sintonia con lo stesso Trump, divorziato per due volte, sposato per tre e incline a frequentare prostitute.
Dai paleoconservatori alla Nuova Destra
Nel ripudiare l’internazionalismo e il globalismo che i repubblicani hanno introiettato nella seconda metà del Novecento, con una particolare accentuazione a partire dal neoliberismo reaganiano, Trump ha di fatto riportato il proprio partito alle posizioni degli anni Venti, quelle delle amministrazioni di Warren Harding, Calvin Coolidge e Herbert Hoover, segnate dal protezionismo doganale, dalla chiusura dell’immigrazione di massa con le leggi restrizioniste del 1921 e del 1924, dai tagli alle imposte sul reddito e dall’isolazionismo successivo al rifiuto di aderire alla Società delle Nazioni.
La polemica di Trump nei confronti della NATO, in particolare la minaccia di non intervenire in difesa degli alleati che non ne finanziano adeguatamente il budget militare, può ricordare in parte la diatriba innescata da un altro senatore repubblicano dell’Ohio, Robert Taft, che nel 1949 era contrario alla partecipazione di Washington al Patto Atlantico.
Ma, pur condividendo le posizioni di Trump, Vance va oltre tali forme di paleoconservatorismo. In politica estera, per esempio, la sua ferma opposizione agli aiuti statunitensi all’Ucraina, esternata fino dalla campagna elettorale del 2022, e i suoi appelli a un negoziato di pace basato sulla cessione di alcuni territori di Kiev alla Russia non rispecchiano solo il ciclico riaffiorare dell’isolazionismo nelle file dei conservatori, riemerso ad esempio negli anni Novanta del Novecento con i richiami di Pat Buchanan al fatto che gli Stati Uniti dovessero essere una Repubblica e non un Impero.
Esprimono anche l’intenzione di Vance di superare la visione di un ordine internazionale fondato sul rispetto di alcune regole condivise, a partire dalla salvaguardia dell’integrità territoriale degli Stati, che si è affermata nel secondo dopoguerra come uno dei capisaldi del sistema della sicurezza collettiva.
In politica interna, Trump ha avuto un atteggiamento altalenante sull’interruzione volontaria della gravidanza: favorevole prima di candidarsi alla Casa Bianca; contrario da presidente e da ex presidente al punto da rivendicare il rovesciamento della sentenza Roe v. Wade nel 2022 come un successo della propria amministrazione grazie alla nomine di ben tre dei giudici conservatori alla Corte Suprema che hanno negato che l’accesso all’aborto sia un diritto da tutelare in ambito federale; adesso non preme più per l’adozione di un emendamento costituzionale che la proibisca e vorrebbe lasciare la decisione ai singoli Stati. Invece, Vance in passato ha più volte dichiarato il proprio appoggio a un eventuale divieto federale – salvo nei casi di stupro, incesto e pericolo di vita per la madre – e nel 2023 ha addirittura invocato l’applicazione di una legge del 1873 contro la diffusione di materiale osceno per impedire la spedizione per posta della RU-486.
Inoltre, si è reso protagonista di una campagna contro il trattamento della disforia di genere nei minori, giustificandola anche in nome di una battaglia contro le multinazionali farmaceutiche che lucrerebbero sulla vendita di farmaci per il cambiamento del sesso fenotipico.
Quest’ultima considerazione, che presenta Big Pharma nel ruolo dei predatori, è paradigmatica del tentativo condotto da Vance di dipingere le guerre culturali come una forma moderna di lotta di classe, in cui i repubblicani si atteggiano a paladini dei più deboli contro le élites dominanti.
Una rivoluzione da completare
Al di là della singolarità di alcune proposte, che comprendono dichiarare l’inglese come lingua nazionale ufficiale degli Stati Uniti e perfino vietare la messa al bando delle cucine a gas (giudicate più economiche e addirittura più facili da far funzionare di quelle elettriche per le famiglie meno abbienti e per i piccoli ristoratori) nell’ambito dei programmi di transizione alle energie rinnovabili, Vance non si pone solo all’avanguardia tra i possibili continuatori del trumpismo dopo l’uscita di scena di Trump.
Si candida alla leadership della radicalizzazione di una rivoluzione politica che, dopo aver assunto il controllo del partito repubblicano, aspira a trasformare l’intera società statunitense, con o senza Trump.
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Stefano Luconi insegna Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova. Le sue pubblicazioni comprendono La “nazione indispensabile”. Storia degli Stati Uniti dalle origini a Trump (2020), Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022 (2022) e L’anima nera degli Stati Uniti. Gli afro-americani e il difficile cammino verso l’eguaglianza, 1619–2023 (2023).
Libri:
Stefano Luconi, La corsa alla Casa Bianca 2024. L’elezione del presidente degli Stati Uniti dalle primarie a oltre il voto del 5 novembre, goWare, 2023, pp. 162, 14,25€ edizione cartacea, 6,99€ edizione Kindle
Stefano Luconi, Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022, goWare, 2022, pp. 182, 12,35€ edizione cartacea, 6,99€ edizione Kindle