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Italiano in movimento, come evolve il nostro linguaggio: la disordinata riscossa del congiuntivo

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La scorsa settimana il glottologo Daniele Vitali, autore di goWare, ha discusso l’adozione della pronuncia settentrionale per s intervocalica la quale mostra l’importanza del fattore prestigio nell’evoluzione del linguaggio. Un ruolo importante è svolto però anche da ipercorrettismo e generalizzazione, come ci mostra la rivoluzione nell’uso del congiuntivo, che è l’argomento trattato in questo post.

Ai consulenti d’immagine non piace il congiuntivo?

Negli anni ’80-’90, i politici cominciarono ad avere il consulente d’immagine, e si misero a dire “Io credo che è”. L’apparente strafalcione sembrava frutto di una precisa strategia comunicativa: siccome la mia ideologia è quella giusta, mentre quella dell’avversario è erronea e mendace, quando esprimo un giudizio non devo sottolinearne l’opinabilità tramite il congiuntivo, bensì affermarne l’incontestabile veridicità ricorrendo all’indicativo.

Questa furbata dalle gambe corte era una specie di risposta all’insegnamento scolastico secondo cui (dalla gloriosa grammatica di Dàrdano e Trifone, edita e riedita da Zanichelli) “Il congiuntivo è il modo della possibilità, del desiderio o del timore, dell’opinione soggettiva o del dubbio, del verosimile o dell’irreale; viene usato generalmente in proposizioni dipendenti da verbi che esprimono incertezza, giudizio personale, partecipazione affettiva: sembra che se ne vada, preferisco che se ne vada (ma non  è certo)”.

Un altro motivo doveva essere che, di fronte all’arretramento che se ne constatava in diverse aree del paese, il congiuntivo doveva cominciare a sembrare un modo verbale libresco e in via di superamento, che creava dunque una separazione tra un linguaggio ufficiale troppo ingessato e la viva voce del popolo elettore.

Dal Sud alla Lombardia

Un’area molto estesa che, nel parlato quotidiano, non usava il congiuntivo era il Sud: ne avevo diversi esempi, da “Non vedo l’ora che è natale” dettomi da un amico siciliano una ventina di anni fa sino a “Questa è una contraddizione che sarebbe il caso che l’affronta” pronunciato l’anno scorso in televisione dal giornalista abruzzese Alessandro De Angelis.

Girando il Nord Italia per i miei studi, non ho però tardato ad accorgermi che un altro focolaio di eliminazione del congiuntivo era la Lombardia, dove due miei amici non esitavano a farne strage in frasi nelle quali io mai l’avrei sostituito con l’indicativo.

Poiché non avevo annotato gli esempi a suo tempo, ne ho segnato uno da un dibattito televisivo di pochi anni fa, in cui un ospite lombardo diceva “Si rischia che questa situazione ci fa precipitare”.

Questione di sfumature

A livello individuale, era ed è possibile sentire un mancato congiuntivo anche da persone di altre regioni. Senza scomodare un conoscente toscano di bassa cultura che dice “È come se non riesco a rilassarmi” e “Gli piacerebbe che vado là da lui”, vorrei almeno citare Massimo Giannini, direttore del giornale “La Stampa”, il quale discutendo del caso Cospito ha affermato a “Otto e mezzo”, per criticare l’atteggiamento del governo: “Si grida all’allarme democratico come se rischiamo l’eversione” (congiuntivo presente o indicativo? Resta il fatto che io ci metterei “rischiassimo” al congiuntivo imperfetto).

Non è dunque sempre una questione di cultura: a volte basta il sentore che sia meglio evitare forme troppo evidentemente congiuntive, pena un indebolimento delle proprie opinioni e constatazioni.

… e anche di stile

Io stesso mi accorgo a volte di non usare più il congiuntivo in casi in cui lo avrei fatto qualche decennio fa: nelle conclusioni del IV volume del mio “Dialetti emiliani e dialetti toscani” ho scritto “prima di decidere se un dialetto sia emiliano-romagnolo oppure ligure, o lombardo, occorre stabilire cosa rende un dialetto emiliano-romagnolo, ligure o lombardo”.

Il “sia” mi sembrava doveroso, mentre il “renda” mi pareva un po’ pesante, per cui decisi di scrivere “rende”. Nelle varie riletture che feci di quel lavoro prima di consegnarlo all’editore ebbi più volte la tentazione di cambiare modo, ma resistetti. 

Adesso che il libro è stampato continuo a guardare quella frase con una certa perplessità: l’indicativo mi sembra un po’ sciatto, ma continuo a trovarlo in linea con quel che intendevo dire.

Trovo invece sicuramente sbagliata un’altra frase che ho tratto da un dibattito televisivo: “Serve una forza che è in grado d’intervenire”. Mi sembra che qui ci vorrebbe “sia” perché la forza in questione, venendo auspicata, non c’è.

Il congiuntivo alla riscossa

La crescente confusione circa l’uso del congiuntivo, comunque, non ha portato alla sua scomparsa, ma a un fenomeno nuovo, ossia una sua sovraestensione.

Potremmo dire che da un uso modale del congiuntivo si sta passando a un uso automatico, nel senso che viene sempre usato dopo “che”, quasi che tale congiunzione, introducendo le “proposizioni dipendenti da verbi che esprimono incertezza, giudizio personale, partecipazione affettiva” (di nuovo dal Dardano-Trifone), richiedesse sempre e comunque la stessa forma verbale.

Nel dicembre 2022 ho infatti trovato questa frase su Facebook: “Leggo oggi che il comune di Roma abbia conferito la cittadinanza onoraria a Patrick Zaki”.

Successivamente ho sentito, nei video del giovane youtuber lombardo Marco Crepaldi, formulazioni come: “Ho conosciuto tante persone che per quanto abbiano la possibilità di vivere da soli non lo facciano”. 

Congiuntivo automatico

Lo stesso Crepaldi, dei cui video sono un affezionato seguace per motivi contenutistici, ha intervistato la giovane Letizia, direi di origine meridionale, sulla sua esperienza fra i testimoni di Geova. 

Come si potrà sentire, l’intervistata produce un buon numero di casi di “congiuntivo automatico”: “Sapevano che andassi molto bene a scuola”, “Hanno cominciato a prendermi di mira quando hanno saputo che mi piacesse leggere”, o ancora “Cercavo di dirgli che c’erano tante cose che non mi piacessero e che non mi andassero giù”.

È una riscossa del congiuntivo proprio nelle zone d’Italia che sembrava facessero da battistrada alla sua eliminazione? Forse, ma ricordo che anche nella mia classe di liceo, formata da bolognesi, c’era chi sovraestendeva il congiuntivo. 

È vero però che allora bastò qualche indignata reprimenda dei professori reduci dalla correzione dei compiti in classe per far rientrare i sovraestensori nei ranghi della grammaticalità.

L’incerto futuro del congiuntivo sovraesteso

Cosa concluderne dunque? Cosa succederà al congiuntivo? Diversamente dal caso della s sonora intervocalica, che sembra arrivata a un buon punto nella sua definitiva affermazione, riterrei la sorte della sovraestensione del congiuntivo ancora incerta. In questo caso, infatti, il fattore prestigio va nella direzione di un rispetto della norma scolastica, e c’è da aspettarsi una certa resistenza contro il nuovo uso.

Che però ha dalla sua la meccanicità: in un’era in cui si leggono sempre meno libri, e quindi sempre meno persone si formano un proprio stile parlato e scritto sui modelli tradizionali, la cristallizzazione sintattica e la semplificazione sono una forte tentazione rispetto alla “scomoda” necessità di adattare la scelta del modo verbale all’intenzione comunicativa.

Staremo a vedere.

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°°°°Daniele Vitali, bolognese, è stato per anni traduttore alla Commissione europea. Ha al suo attivo vari lavori di glottologia su lingue e dialetti, fra cui “Ritratti linguistici: il romeno” (Inter@lia 2002), “Parlate italo-lussemburghese? Appunti sulla lingua degli italiani di Lussemburgo” (Inter@lia 2009), “Pronuncia russa per italiani” (con Luciano Canepari, Aracne 2013), nonché il grande “Dizionario Bolognese-Italiano Italiano-Bolognese” (Pendragon 2007 e 2009, con Luigi Lepri), “Dialetti emiliani e dialetti toscani. Le interazioni linguistiche fra Emilia-Romagna e Toscana” (Pendragon 2020) e “Mé a dscårr in bulgnaiṡ. Manuale per imparare il dialetto bolognese” (Pendragon 2022).

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