L’Italia è entrata in recessione. La terza in dieci anni. Certo, per ora è una variazione negativa minima del PIL: -0,3% cumulato tra il secondo trimestre e l’ultimo 2018. Tecnica, si dice, aggettivo edulcorante oltre che preciso sul piano analitico, perché bastano due trimestri consecutivi di calo del PIL, qualunque sia la loro dimensione, per poter parlare correttamente di recessione. Il risultato dell’ultima frazione dell’anno scorso è perfino marginalmente inferiore a quello atteso (-0,1%).
Ci sono cinque elementi significativi che rendono ancora più preoccupante anche questa minima riduzione. Il primo è che a guardare gli indicatori qualitativi (fiducia delle imprese a gennaio e PMI di dicembre) hanno continuato a andare giù, segno che ci si deve attendere almeno un altro segno meno nel 2019. Il secondo è che basta uno stormir di foglie nel ciclo internazionale che l’Italia va sott’acqua e si conferma il divario sfavorevole di circa un punto percentuale di crescita annua tra l’Area euro e l’Italia osservato fin dal 2000 (1,2% contro 0,1% tendenziale nell’ultimo quarto del 2018), il che significa che il Paese continua a perdere terreno rispetto agli partner europei. Il che rimanda a cause squisitamente interne per spiegare la bassa crescita italica.
Il terzo elemento è che la mini ripresa partita nella seconda metà del 2013 ha solo fatto recuperare una parte non grande delle perdite accumulate dal 2008 in poi e che in termini di PIL pro-capite i livelli sono quelli di dieci anni fa, e ciò alimenta la percezione che la ripresa non ci sia stata, con le conseguenze sociali e politiche che si osservano in termini di aumento ulteriore della povertà assoluta e di orientamento politico dell’elettorato, che cerca ristoro immediato e protezione. Il quarto elemento è che questa variazione negativa nella seconda metà del 2018 si trascina nel 2019, che infatti parte da -0,2%. Usando una metafora calcistica è come se una squadra di calcio fosse, all’inizio del campionato penalizzata di qualche punto, con la conseguenza che deve fare più fatica per rimontare la classifica.
Inseguendo la realtà peggiore delle aspettative, da qualche mese si osservano continue revisioni al ribasso, qualunque sia il previsore. L’ultimo in ordine di tempo è stato REF ricerche, che ha dato un bel zero tondo per la dinamica del PIL di quest’anno. Ma, considerato il profilo trimestrale incorporato da REF, e a parità di andamento per la rimanente parte del 2019, rende già vecchia e ottimistica quella stima, perché l’intero 2019 ora chiuderebbe con un -0,1.
Il profilo REF, infatti, stima un altro -0,1% nel primo trimestre e poi una minima crescita nel resto dell’anno. Ma questo andamento non è per nulla scontato, perché persistono importanti rischi al ribasso, gli stessi che hanno fatto frenare l’economia globale nel corso del 2018: il rallentamento americano potrebbe risultare maggiore e lo stesso vale per la Cina e in entrambi le munizioni di politica economica per contrastare la frenata non sono così abbondanti come prima della crisi; l’incertezza circa le prossime mosse delle maggiori banche centrali, che in un modo o nell’altro sono divenute dipendenti dai dati che via via escono; la guerra commerciale scatenata dall’Amministrazione Trump, che ancora non si sa dove si fermerà; la Brexit, che a questo punto sembra che sarà sempre più dura e non governata; i risultati delle elezioni europee; l’andamento dei mercati finanziari, che hanno già fatto registrare un significativo ribasso negli ultimi mesi del 2018 ma che non scontano una crescita mondiale inferiore alle attuali stime FMI e OCSE e che potrebbero incidere, con un altro capitombolo, sulla fiducia e sulla ricchezza delle famiglie. Insomma, c’è ancora molto rischio politico che grava come una cappa sull’economia italiana. Rischio che è ancora più elevato in Italia, come dimostra l’andamento dello spread, che si è si ridotto, ma resta molto elevato e rende più difficile l’erogazione del credito.
Tra l’altro, sia REF sia Banca d’Italia (che ha indicato un +0,6% per quest’anno) incorporano già gli effetti delle misure adottate con l’ultima manovra di bilancio. Misure che non aiutano la crescita, concentrate come sono nell’aumentare i trasferimenti alle famiglie, le quali stanno aumentando, dati i chiari di luna, la propensione al risparmio (per giunta ai minimi storici). Se anche una sola parte di questi rischi al ribasso si materializzasse, non si potrebbe dare per scontata la risalita nella seconda metà dell’anno.
Ma perché la crescita dell’economia italiana si è cosi rapidamente afflosciata? Perché il traino è stato dato dall’export sul fronte della domanda e dall’industria sul fronte dell’offerta. Industria che è determinante per il ciclo economico perché più soggetta a oscillazioni; mentre l’export risente dello stato di salute della domanda mondiale e in particolare dei mercati di riferimento del Paese, sia geografici sia settoriali. L’Italia esporta ancora molto verso l’area dell’euro e in particolare la Germania; e vende all’estero molti beni di investimento e componenti di tali beni. Il peggioramento della congiuntura europea e soprattutto tedesca, da un lato, e il rapido spegnersi del ciclo degli investimenti (legato all’incertezza di cui sopra) hanno penalizzato l’export e l’industria e fatto sgonfiare la velocità dell’Italia.
L’ultimo elemento di preoccupazione è anche quello maggiore per l’Italia, e sono le ripercussioni sulla finanza pubblica di una simile dinamica del PIL. Il Governo ha infatti appeso le sue proiezioni su deficit e debito pubblico a una crescita reale dell’1% e a un andamento dei prezzi (deflatore del PIL) dell’1,4%, cioè un PIL nominale, che è quello che conta per l’andamento dei conti pubblici, del 2,4%. Il deficit pubblico quest’anno potrebbe risultare tutto sommato in linea con le previsioni del governo: REF indica 2,1% (contro 2,0%) in ragione di un presumibile ritardo dell’attuazione del reddito di cittadinanza e di quota 100 per le pensioni. Ma già nel 2020 sale al 2,3% (anziché 1,8%), questo in virtù di una parziale disattivazione delle clausole di salvaguardia (aumento corposo dell’Iva). Soprattutto il rapporto debito PIL ricomincia a salire già quest’anno e si situa al 132,9% del PIL l’anno prossimo, mentre il Governo ha indicato 129,2% e in costate riduzione.
Ciò rappresenta una chiara violazione delle regole europee, che prevedono un calo sostanzioso del rapporto debito/PIL come marcia di avvicinamento alla soglia del 60%. Ora, a prescindere dalla logica e intelligenza di queste regole, la maggioranza che sostiene il governo punta su risultati elettorali europei che premino partiti nazionalistici e quindi anti Bruxelles. Peccato che nelle nazioni del Centro-Nord-Est i partiti nazionalisti sono a favore di conti pubblici in ordine e sono molto più dogmatici e rigidi di quelli che attualmente governano, per esempio, Francia e Germania. Dunque, la scommessa dei governanti italiani rischia di rivelarsi perdente e l’Italia di ritrovarsi con una crisi di finanza pubblica simile a quella del 2011-12. Allacciate le cinture di sicurezza.
riguardo le esportazioni Giulio Sapelli dice che solo il 20% delle aziende esportano io per un pò di esperienza gli credo
Il volano della crescita e della ricchezza è attivato solo dal mercato interno, che attualmente è completamente fermo. Quando lo Stato diventa il più temibile concorrente delle aziende private è dura andare avanti e crescere