Il finale della storia delle imprese italiane non è allegro. Nel saggio che segue il mio sull’Enciclopedia Treccani, il professor Pierluigi Ciocca, già Vicedirettore generale della Banca d’Italia, scrive che “pur non considerando il periodo pandemico, il quarto di secolo che precede il 2020 è il peggiore della storia patria, per produzione, occupazione, investimenti, produttività”.
Una delle parole più pronunciate nel quarto di secolo menzionato da Ciocca è globalizzazione.
L’abbiamo definita in modi diversi, cercata in epoche diverse, ma quella vera si materializza solo nei due decenni a cavallo del nuovo millennio, con la fine dell’impero sovietico, il pieno avvento delle nuove tecnologia dell’informazione e della comunicazione e l’entrata della Cina nel WTO.
Le imprese, i sistemi economici territoriali vengono esposti a una concorrenza di intensità del tutto sconosciuta, che ne mette impietosamente in evidenza i limiti.
Nel caso italiano gioca un ruolo particolarmente negativo il contesto: la precarietà della finanza pubblica, il cattivo stato delle infrastrutture materiali e immateriali, l’inefficienza complessiva della pubblica amministrazione, la scandalosa lentezza dell’apparato giudiziario, la stessa scarsa chiarezza della normativa.
“Ho visto gli agenti di una compagnia americana, venuti in Italia con forti capitali, per intraprendere alcune industrie, fuggire disperati dopo aver visto la serie infinita delle pratiche che bisogna fare per ottenere il desiderato permesso e le mille difficoltà che si dovevano superare”.
“L’Italia – mi dissero – non è ancora un paese per gli affari”.
Solo il linguaggio, e lo stile un po’ âgée non ci consentono di attribuire il brano a un autorevole quotidiano dei nostri giorni. Infatti, esso è riferito, nel 1870, dal grande storico Pasquale Villari.
Non possiamo però non reagire pensosi della sua verosimiglianza con il nostro parlare corrente.
Se la consistenza del “sistema Italia” è causa di assoluto rilievo in un processo di declino che sembra assumere proporzioni epocali, è necessario riconoscere che il nostro primo attore, l’impresa, vi ha arrecato una partecipazione di non poco conto.
È ormai certificato da innumerevoli studi e ricerche che vi è una correlazione positiva fra dimensione d’impresa, progresso tecnico e competitività di un paese.
Nel 2016, secondo l’Istat, la dimensione media dell’impresa italiana si attesta sui 3.8 addetti, un terzo di quella inglese e tedesca. È il segnale evidente di una struttura economica che non può reggere l’impatto del paradigma tecnologico dominante ai nostri giorni, quello dell’elettronica, sul quale si fonda il web.
Allo stesso modo non possiamo dimenticare il capitolo dedicato agli imprenditori male-educati, che si ripropone nel cruciale episodio delle privatizzazioni.
Una delle ragioni che spingeva al ridimensionamento, se non all’estinzione, dell’impresa pubblica, traeva la convinzione dal fatto che in Italia vie era una riserva di imprenditorialità privata in grado di far funzionare le aziende a partecipazione statale in modo assai più efficiente e profittevole rispetto ai “corrotti” boiardi di stato.
Come è noto, questo convincimento è stato clamorosamente smentito dalla realtà.
Il racconto termina con l’immagine di un paese in forte retromarcia.
Cosa accadrà quando la fine della pandemia, restituirà al gioco delle forze economiche la sua dinamica normale?
Penso che sia opinione generalmente condivisa che non rientri nei compiti dello storico predire il futuro.
Non possiamo tuttavia inibirci alcune suggestioni che emergono dalla lunga vicenda raccontata: in Italia, le forti accelerazioni dell’economia, i cosiddetti “miracoli” sono sempre avvenuti dopo fasi la cui asprezza non lasciava spazio alcuno all’ottimismo.
Che sia alle viste una nuova, sostenuta, accelerazione provocata da quel quarto capitalismo che, alla comprovata eccellenza tecnico-organizzativa e alla capacità di muoversi a livello globale, sappia aggiungere l’abbandono dello stereotipo dell’impresa personal-familiare, cosicché la guida dell’impresa non sfugga mai alle “mani adatte”? …. Enough is enough.