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Italia dei dialetti: da dove nasce la loro varietà. Somiglianze e differenze con quelli francesi

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Nella prima parte di questo contributo relativo all’Italia dei dialetti, pubblicata la scorsa domenica, il glottologo Daniele Vitali ci ha parlato delle origini dei dialetti dalla comune matrice del latino, poi sviluppatosi nel volgare.

In questo secondo e conclusivo post Vitali traccia l’affermarsi dei dialetti nel nostro paese con uno stretto parallelo con quello che stava succedendo ai linguaggi del paese confinante, prima dell’Italia sviluppatosi in una nazione, la Francia.

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Francia e Italia

Sarebbe però sbagliato pensare che, dalla evoluzione del latino, fossero nati bell’e pronti il francese e l’italiano: la lingua d’oïl ebbe bisogno di tempo per affermarsi sulle varianti simili, mentre la lingua del sì avrebbe trovato sé stessa nel fiorentino solo molto tempo più tardi.

Va aggiunto che, nell’alto medioevo, la Francia e l’Italia non erano due Stati modernamente intesi, ma due paesi in divenire. La Francia in effetti è l’erede del Regno dei Franchi, che Carlo Magno trasformò in un impero tramite nuove acquisizioni territoriali, fra cui l’Italia sottratta ai Longobardi.

Alla morte di Carlo, come s’è visto, l’impero fu diviso in Stati in guerra fra loro, fino a che nel 962, con l’incoronazione di Ottone I, il titolo imperiale passò definitivamente in Germania.

Le diverse sorti dei due paesi

Se si guarda una carta dell’Europa intorno al Mille, si può vedere che al Regno di Francia manca ancora tutta la parte orientale, e che c’è un Regno d’Italia sottoposto in realtà all’impero germanico e comunque limitato alle regioni centro-settentrionali e all’Abruzzo.

Ma c’è di più: Carlo Magno aveva riconosciuto al papa una fascia di possedimenti nell’Italia centrale corrispondente grosso modo al territorio che i Longobardi non erano riusciti a sottrarre stabilmente ai Bizantini. Quella fascia sarebbe diventata col tempo lo Stato della Chiesa, comprendente Lazio, Umbria, Marche, Romagna ed Emilia orientale.

Mentre la Francia si consolidava nei secoli fino a diventare uno “Stato nazionale” fortemente accentrato, l’Italia era divisa in tre: c’erano una sezione formata dal Nord e dalla Toscana, fatta prima di liberi Comuni rivoltatisi contro l’imperatore tedesco e poi di signorie che anticipano le regioni attuali, una sezione costituita dal Sud e compresa in un unico regno prima aragonese e poi borbonico, e una sezione rappresentata dallo Stato della Chiesa, che separava le altre due in modo da renderle quasi non comunicanti.

Il feudalesimo moltiplica le varianti

A complicare questo processo, di unificazione in Francia e di frazionamento in Italia, ci pensò il feudalesimo, ossia il sistema per cui nel Regno dei Franchi, e successivamente in Germania e nell’Italia settentrionale, si affermò una classe di nobili, i vassalli, che gestivano un territorio per conto del sovrano.

Sappiamo che era un sistema piramidale, poiché i vassalli potevano subappaltare una parte del loro territorio ad altri feudatari (i “valvassori”, che a loro volta potevano delegare dei “valvassini”), in modo da sfruttare ancor più capillarmente il territorio e tener meglio sottomessi i servi della gleba.

Nella sua variante iniziale, il feudalesimo era servito a Carlo Magno per gestire la vasta estensione del suo impero, ma si rivelò in seguito un potente fattore di disgregazione, perché l’autonomia economica del feudo consentiva a molti vassalli di svincolarsi dal rapporto col sovrano.

Infatti la stessa Francia, che aveva partorito l’infelice idea, dovette penare parecchio per liberarsi dei suoi feudatari, in particolare dei re inglesi, che a furia di acquisizioni di feudi avevano messo le mani su metà del paese: per liberarsi della presenza d’Oltremanica fu fatta la guerra.

Il frazionamento politico

In Francia, il monarca concentrò progressivamente il potere alla sua corte di Parigi (e poi nella vicina Versailles, in cui il Re Sole costrinse i nobili a risiedere per poterli controllare meglio), mentre l’Italia sarebbe diventata uno Stato unitario solo nel 1861.

Ecco perché la storia dell’Italia ha tanto in comune con quella della Germania: entrambi i paesi dell’Europa centrale (praticamente uno il prolungamento mediterraneo dell’altro), fatti in tanti pezzettini dal feudalesimo, videro la successiva formazione di Stati regionali che rimasero indipendenti fino al XIX secolo.

La Germania infatti, sciolto da Napoleone l’impero ormai ridotto a puro involucro formale, dopo il 1815 divenne un coacervo di Stati in lasca confederazione poi annessi uno ad uno dalla Prussia, che nel 1871 riunificò il paese con le armi come in Italia aveva fatto il Piemonte 10 anni prima.

Le conseguenze sulle lingue parlate

Ebbene, il lungo frazionamento politico è responsabile della grande varietà dei dialetti sia in Italia che in Germania, con divaricazioni cresciute nel corso del tempo.

Inoltre, la mancanza di una capitale storica riconosciuta, che potesse avere un ruolo simile a quello avuto da Parigi in Francia, è all’origine del fatto che l’italiano sia stato per tanto tempo solamente lingua scritta, mentre ciascuno nella vita quotidiana parlava il proprio dialetto: anche se gli Stati regionali usavano l’italiano come lingua cancelleresca, mancava un centro unificatore cui tutti guardassero come modello linguistico-culturale, e quindi la lingua ufficiale rimase cosa delle classi colte che sapevano leggere e scrivere.

Il popolo, poco istruito e ancor meno mobile, non aveva una classe intermedia che gli parlasse in italiano obbligandolo a impararlo sul campo: ad es. i contadini, nei rapporti col padrone, si sforzavano di imitarne il dialetto per facilitare l’intercomprensione, non di imparare da lui un italiano che nemmeno questi usava.

Torna in scena la Francia

Evidentemente, se anche l’Italia fosse stata un paese unificato con una città importante e alla moda come capitale, l’italiano avrebbe cancellato tutti i dialetti attorno alla suddetta, e sarebbe riuscito ad affermarsi molto prima sull’intero territorio, come appunto è successo in Francia.

Anzi, nel 1789 come noto la Francia ebbe una rivoluzione che, nella sua fase giacobina, cercò di cambiare tutti i settori della vita, della lingua e della cultura: famosa è l’invenzione di nuovi nomi per i mesi, ma non va dimenticata la guerra ai cosiddetti patois, termine spregiativo indicante tutte le varianti diverse dal francese, che fossero dialetti o lingue minoritarie.

Queste ultime sono bretone, basco, catalano, occitano, corso, alsaziano e fiammingo: l’elenco andrebbe spiegato, visto ad es. che il corso si conta tra i dialetti italiani, l’alsaziano fra quelli tedeschi e il fiammingo tra quelli olandesi, ma qui mi limito a rimandare al sito https://atlas.limsi.fr, che mostra una cartina linguistica della Francia con la possibilità di ascoltare diverse varianti.

Ora, l’occitano o lingua d’oc come si può vedere da quella cartina si estende su quasi metà del paese, e nel medioevo aveva dato all’Europa la sua prima letteratura in volgare, quella dei trovatori provenzali: evidentemente, se le autorità centrali non avessero bandito dalla scuola e quindi dall’uso pubblico i vari dialetti occitani squalificandoli a varianti inferiori al francese, la situazione linguistica della Francia sarebbe ora piuttosto diversa.

L’Italia nazione

L’Italia appena nata, come noto, si ispirò alle istituzioni francesi, compreso il centralismo, e mosse guerra a propria volta alle lingue minoritarie e ai dialetti, in particolare nel periodo fascista.

Come ho già scritto, furono tradotti a forza cognomi e pietre tombali per far sparire tedesco, francese, sloveno e croato dal paesaggio, ma anche i dialetti furono perseguitati: per fare un esempio, nel 1933 fu chiusa d’autorità la rivista letteraria romagnola La Piê.

Banditi da scuola, deprecati e stigmatizzati, i dialetti erano dunque già privi di prestigio al momento in cui arrivò il miracolo economico degli anni Cinquanta e Sessanta, con cui iniziò la loro uscita dall’uso quotidiano, prodromo dell’estinzione.

Sappiamo che in alcune regioni questo processo è molto più avanzato che in altre, ma anche nelle zone più dialettofone, come il Veneto, i dialetti perdono ogni anno più terreno. Secondo alcuni questa sarebbe una grande conquista.

Secondo altri si tratta in realtà di una perdita culturale senza alcun vero guadagno, dal momento che sarebbe stato possibilissimo praticare un bilinguismo (eventualmente ineguale dal punto di vista degli ambiti d’uso, dunque una diglossia) in cui usare sia il dialetto che l’italiano, a seconda delle esigenze e degli interlocutori.

La Francia, però, non c’entra sempre

Nel senso comune, i dialetti sono varianti inferiori dell’italiano, e quindi tanti pensano che siano corruzioni della lingua nazionale, anziché evoluzioni indipendenti dal latino. Quest’idea (piuttosto inesatta, dal momento che l’italiano stesso è derivato da uno dei dialetti, ossia dallo stadio trecentesco del fiorentino, con il percorso che poi fece indipendentemente da questo) è alla base dei tentativi di spiegare la diversità dialettale con “influssi stranieri”.

Praticamente in tutt’Italia, ad es., si fa notare al gitante in visita che il nome del “cavatappi” nel dialetto locale è un prestito dal francese tire-bouchon (a Napoli tirəbbussciò, a Bologna tirabusån e così via), e ci si sbizzarrisce nelle spiegazioni: sono stati gli Angioini, è stato Napoleone, e così via. In realtà, dato che lo stesso francesismo si trova dal Sud al Nord, e vista l’influenza che la Francia e il francese hanno avuto sull’Italia intera durante l’Illuminismo e fino praticamente alla Prima guerra mondiale, risulta chiaro che tire-bouchon è stato uno dei tanti modismi francesi, come armoire, chauffeur, sans façon ecc., che sono poi defluiti dall’italiano ma sono o erano rimasti nei dialetti.

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La vera natura dei dialetti

Sia chiaro: l’influenza d’Oltralpe nell’alto medioevo, ma si dovrebbe dire anche verso la fine dell’Impero Romano, è uno dei motivi per cui i dialetti settentrionali hanno tante caratteristiche in comune col francese: è una questione di comuni sviluppi fonetici che hanno fatto somigliare certe parole, come bolognese avrîr “aprire” e francese ouvrir, milanese vin “vino” e francese vin, ma si tratta per così dire di evoluzioni in solido, non di prestiti!

Un esempio chiaro: un autore di Guastalla (in provincia di Reggio, vicino al confine con Mantova) mi diceva che la parola per “albero” del suo dialetto, ossia àrbul, viene dallo spagnolo árbol. Ebbene no, si tratta di una semplice coincidenza nello sviluppo fonetico, anche abbastanza facile da ricostruire: non c’è nessun bisogno di teorizzare che la parola sia dovuta alla dominazione spagnola di Milano.

Quell’autore riteneva, come tanti, che il suo dialetto fosse italiano corrotto da diverse lingue straniere (lo spagnolo per balànsa e bandéra “bilancia, bandiera”, il francese per menù, il tedesco per scutmài “soprannome” – chissà perché, dato che viene dal latino costumalia).

La dialettologia

Per concludere, potremmo dire che i dialetti sono banalmente evoluzioni locali del latino, o meglio volgari non assurti a lingue ufficiali. E il loro studio scientifico, volto a stabilirne lo sviluppo storico, la struttura fonetico-fonologica e morfosintattica, il lessico e le interazioni reciproche e con la lingua ufficiale, si chiama dialettologia.

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