Oltre che per festeggiare, i giorni tra Natale e San Silvestro sono sempre l’occasione per guardarsi intorno e fare i primi bilanci dell’anno che sta per chiudersi. Nel bene e nel male non si può dire che il 2017 sia stato per l’Italia un anno incolore. Di sorprese ce ne sono state tante.
Alzi la mano chi aveva previsto all’inizio dell’anno che nel 2017 il Pil italiano sarebbe cresciuto dell’1,6 per cento. Perfino l’algida direttrice del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde, ha riconosciuto che l’economia italiana è cresciuta oltre le attese e che non cresceva così dal 2010. E Gianni Tamburi, il finanziere più vincente che ci sia oggi nel nostro Paese, ha raccontato a FIRSTonline che l’Italia sta ritrovando il gusto di investire e che in giro c’è tanta liquidità che aspetta solo di essere impiegata in nuove scommesse imprenditoriali.
È vero che l’economia italiana cresce meno di quella dei nostri partner europei, perché restano irrisolti alcuni nodi strutturali a partire dalla bassa produttività e dal gigantesco debito pubblico, ma cresce più del previsto e produce nuova occupazione. Il milione di nuovi posti di lavoro vanamente annunciato dal primo Berlusconi, che su questa effimera promessa non mantenuta vinse le elezioni nel 1994, oggi è realtà. Sotto i governi Renzi e Gentiloni, come ha documentato l’Istat, i nuovi occupati hanno compensato quasi del tutto i posti di lavoro persi durante la Grande Crisi. In molti casi si tratta di occupazione precaria, ma ci vorrebbe davvero molto coraggio o molto autolesionismo a sostenere che il nulla sia davvero meglio di un lavoro a tempo determinato che talvolta può diventare stabile. Certo la disoccupazione resta intollerabilmente alta, specie tra le nuove generazioni, ma gli economisti insegnano – ieri in Spagna e oggi in Italia – che non è lo stock ma sono i flussi a rivelare se un mercato del lavoro sta migliorando oppure no.
Parte significativa della buona congiuntura italiana è certamente da attribuire al trend internazionale e alla politica monetaria espansiva della Bce di Mario Draghi, ma perfino un Paese spesso ammaliato dall’autodistruzione come il nostro dovrà prima o poi riconoscere che una parte dei passi avanti compiuti sono anche il frutto delle tante riforme realizzate negli ultimi anni, a partire da quella lungamente attesa e tuttavia ancora così controversa come il Jobs Act o quelle, inseguite da decenni, sulle banche popolari e sul credito cooperativo.
Se la fiducia delle famiglie e delle imprese è cresciuta, qualche merito le riforme – che non sono mai state tante come negli ultimi anni, anche se non tutte sono riuscite al meglio – ce l’hanno di sicuro e sarebbe intellettualmente onesto ammetterlo.
Ma, come è successo negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Germania, la crescita non basta a rasserenare la classe media e le fasce più deboli della popolazione. Non stupisce che, malgrado il miglioramento degli indicatori economici a livello macro, montino – come ha segnalato l’ultimo Rapporto Censis – un rancore sordo e un odio sociale contro i governi e le istituzioni che finiscono spesso per alimentare la rivolta contro le elite e le derive populiste di diverso conio. Non stupisce perché la ripresa dell’economia italiana è lungi dal poter soddisfare la domanda sociale di maggiori e migliori posti di lavoro e perché le diseguaglianze sociali, aggravate da una globalizzazione malgovernata e dallo sviluppo impetuoso delle nuove tecnologie, non sono visibilmente diminuite.
La crescita c’è e mediamente gli italiani stanno meglio di qualche anno fa, ma la percezione che le nuove generazioni hanno è diversa ed è quella che produce la convinzione per la quale non sono i giovani a raccogliere il dividendo del miglioramento dell’economia. La ripetuta tendenza della classe politica (con poche distinzioni) e degli stessi sindacati a privilegiare gli anziani e i pensionati, che sono la fascia più larga di una società che invecchia, rafforza il senso di esclusione delle nuove generazioni. Non sorprende che tutto ciò spinga all’astensionismo elettorale o a cercar rifugio nelle illusorie ricette del populismo grillino e leghista.
È paradossale – ma forse sarebbe meglio dire autolesionista – che a fronte dei miglioramenti dell’economia aumenti giorno dopo giorno la confusione sotto il cielo della politica italiana. Una classe dirigente saggia farebbe leva sul rialzo del Pil italiano per rafforzare la crescita e distribuirne meglio i suoi frutti. Ma, se si guarda ai pericoli di ingovernabilità che le prossime elezioni portano con sé e alla sgangherata campagna elettorale in corso, l’ipotesi più probabile non è quella che fa della ripresa economica in atto il punto di partenza per ulteriori miglioramenti che abbiano un effetto tangibile su occupazione e salari, ma quella di una facile dissipazione del tesoretto della crescita faticosamente acquisito. Che questo faccia il gioco spericolato di chi punta al tanto peggio tanto meglio, come la Lega o i Cinque Stelle, le cui ricette economiche fanno sorridere e la cui incapacità di governo è esemplificata dal plastico fallimento dell’amministrazione grillina di Roma, è facile da intendere. Ma la vaghezza e la contradditorietà programmatica di Forza Italia e del centrodestra e i ripetuti inciampi del Pd nelle trappole costruite ad arte dalle opposizioni – e alimentate da un sistema mediatico impazzito, che non avendo ancora capito le ragioni della propria crisi abbaia alla luna e porta acqua al re di Prussia – lasciano esterrefatti.
Resta solo da sperare che abbia ancora una volta ragione Tamburi quando prevede, come è successo per la Brexit in Gran Bretagna o per l’ascesa di Trump negli Usa, che la variabile politica ed elettorale non inciderà più di tanto sul trend dell’economia che vive di forza propria. Non rovinare la festa dopo dieci anni di crisi sarebbe già molto, ma allargarne la platea dei beneficiari non sarebbe un’utopia se la politica di chi resiste alle sirene del populismo sapesse finalmente trovare la sua bussola nel rilancio delle riforme e nella rifondazione dell’Europa, senza di che un maggior benessere e una maggior giustizia sociale sono solo una chimera. Senza una crescita più robusta si possono distribuire illusioni ma non si riducono le diseguaglianze, ma senza riforme e senza una nuova politica Europa lo sviluppo resta un sogno. Riforme e nuova Europa per una crescita più forte e più giusta: su questi terreni è ora di stanare i profeti del populismo e di interrompere l’autolesionismo italiano. Siamo ancora in tempo.