Natale spinge a vedere il mondo in rosa ed è una buona occasione per ricordare, nell’alluvione di cattive notizie che ci circonda, almeno tre aspetti confortanti con cui il 2019 si sta chiudendo.
IL RITORNO IN EUROPA
Il più importante è che nella seconda metà dell’anno, per effetto dell’autoesclusione della Lega di Matteo Salvini dal Governo e della conseguente nascita del Conte bis nell’allucinante crisi di Ferragosto, l’Italia è finalmente tornata in Europa, dalla quale si era colpevolmente autoemarginata. E con il ritorno a tutti gli effetti in Europa è finito l’incubo di uscire dall’euro per la rivincita dei mercati sulle provocazioni anti-Europa e anti-euro dei vari Salvini, Borghi e Bagnai e l’allegra compagnia di giro dei 5 Stelle che sono costate un sacco di soldi agli italiani con l’aumento dello spread nella prima parte del 2019.
IL CLIMA D’ODIO SI STEMPERA
La seconda buona notizia è che l’uscita di Salvini dal Viminale ha finalmente stemperato il clima di paura, di violenza, di odio, di risentimento, di rancore che prima ha investito gli immigrati e poi si è esteso ad altre fasce della società italiana, come le inqualificabili minacce alla senatrice a vita Liliana Segre ci hanno fatto toccare con mano. La nascita di un movimento giovanile, pacifico e ragionevole come quello delle Sardine ha completato il ritorno dell’Italia a quel Paese civile che è sempre stato.
L’ANNATA SPETTACOLARE DELLA BORSA
La terza buona notizia è la spettacolare annata della Borsa italiana, regina dei listini azionari d’Europa con un rialzo del 30% che non si vedeva da anni, malgrado la debolezza dell’economia – spia della forbice tra finanza ed economia reale – ma grazie all’abbondante liquidità riversata sui mercati dalla politica ultraespansiva della Bce, avviata da Mario Draghi e proseguita da Christine Lagarde.
Ma le buone notizie finiscono qui e qui cominciano le spine che incombono sull’Italia del 2020. Ce ne sono almeno tre con cui dovremo fare i conti.
LA STAGNAZIONE ECONOMICA
La prima, ad onta dell’exploit della Borsa, è la stagnazione economica che non ci abbandonerà neanche nell’anno che sta per aprirsi. E’ difficile stabilire se abbia o no ragione Larry Summers (il celebre economista candidato al premio Nobel e già consigliere economico del Presidente Bill Clinton), che per primo ha ipotizzato per l’economia mondiale l’arrivo di una stagnazione secolare. Per ora la creazione di milioni di nuovi posti di lavoro negli Stati Uniti e la ripartenza della Cina sembrano dargli torto, ma certamente per l’Italia la stagnazione non è un’ipotesi, bensì una realtà che dura da almeno vent’anni e che non può più considerarsi un male di stagione. Il modesto bilancio del 2019, nel quale il Pil si stima sia cresciuto dello 0,2%, e le altrettanto modeste previsioni per il 2020, in cui l’economia italiana è attesa in crescita di mezzo punto percentuale, sono lì a ricordarci che sulla stagnazione italiana il sipario è lungi dal calare.
Ma siccome è da decenni che l’Italia non cresce più come in passato e che cresce sempre meno degli altri Paesi europei, sarebbe ora che – senza infingimenti – ci si interrogasse sulle ragioni profonde della stagnazione italiana e che soprattutto si pensasse a come invertire finalmente la rotta. Per la verità c’è poco da scoprire, ma c’è molto da fare. Gli economisti delle diverse scuole di pensiero concordano nel ritenere che alla base della mancata crescita italiana ci sia la crisi della produttività, non solo quella del lavoro ma quella generale, e che la crisi della produttività si accompagni e sia al tempo stesso effetto della crisi degli investimenti, sia pubblici che privati, e della mancanza di riforme di struttura.
L’INCERTEZZA POLITICA
Ma se la stagnazione economica ha la sua matrice nella triade produttività-investimenti-riforme e da lì trae spunto la caduta di fiducia delle famiglie e delle imprese, non c’è chi non veda lo stretto intreccio tra la debolezza dell’economia e l’incertezza politica che domina da troppo tempo l’Italia e che rappresenta la seconda grande incognita del 2020.
Negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso i politici di vario colore erano abituati a immaginare l’avvenire dell’Italia in un orizzonte temporale di 10 o 20 anni, mentre oggi la politica italiana ha come orizzonte temporale il mese prossimo, come se la soluzione di tutti i nostri problemi dipendesse unicamente dalle pur importantissime elezioni regionali dell’Emilia-Romagna del 26 gennaio.
Che succederà sul piano nazionale se gli elettori dell’Emilia-Romagna confermeranno l’ottimo presidente Stefano Bonaccini? Cosa accadrà se invece la Lega e il centrodestra riusciranno ad espugnare una delle ultime roccaforti rosse della sinistra? Secondo alcuni, in caso di sconfitta di Bonaccini e del Pd, traballerà la segreteria Zingaretti e traballerà anche il Governo Conte 2. Ma c’è anche chi sostiene l’esatto opposto e cioè che, in caso di sconfitta in Emilia-Romagna, il Pd si guarderà bene dall’accelerare la corsa alle elezioni politiche e si stringerà attorno al Governo dopo la sorprendente investitura del premier Conte come nuovo leader del fronte progressista, con buona pace dei suoi trascorsi populisti con i Cinque Stelle, del suo governo con la Lega e del suo successivo passaggio – come chiamarlo se non trasformista? – alla guida del nuovo Governo insieme al Pd.
Sia come sia, che resti in piedi o no il Conte 2, il tirare a campare di andreottiana memoria e la navigazione a vista sembrano gli inequivocabili tratti distintivi di questa fase politicae di questo Governo, che è e resta lontano anni luce dalle sfide epocali che i nostri tempi ci propongono. La globalizzazione, i cambiamenti climatici, la crisi demografica, le nuove sfide tecnologiche, le migrazioni di massa verso l’Europa ma anche la fuga di massa dei giovani più qualificati dall’Italia: chi ha mai visto nel nostro Paese una politica in grado di affrontare coraggiosamente queste battaglie? Noi perdiamo tempo in polemiche meschine ma i grandi temi della nostra era non approdano mai sulla scena politica nazionale.
LE TENSIONI INTERNAZIONALI
Ecco perché l’incognita politica è, dopo la stagnazione economica e strettamente legata ad essa, la seconda grande emergenza che ci riserva il 2020. Ma ce n’è anche una terza ed è quella dovuta alle crescenti tensioni internazionali. Se Atene piange, Sparta non ride. Da quando c’è Trump alla Casa Bianca l’America non è più quella che abbiamo conosciuto in passato e da quando ha perso completamente identità anche l’Europa non è più l’Europa. Con la Brexit Boris Johnson prepara sconquassi nel Regno Unito (ma unito fino a quando?) e la Germania, che si avvia al tramonto di Angela Merkel, non è più la locomotiva d’Europa, sia per la devastante crisi dell’auto che per quella delle banche. Ma anche Francia e Spagna non se la passano bene. Guai però a pensare che mal comune sia mezzo gaudio. Che dire poi del ribollire di tensioni a Hong Kong, in Medio Oriente e in Africa? E che dire dello smembramento della Libia?
Per noi il massimo che il 2020 sembra riservarci è un penoso galleggiare in un mare di problemi irrisolti e di miopie politiche, ma Natale obbliga a non perdere la fiducia e a sperare che, prima o poi, qualcuno apra gli occhi.