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Italexit, che boomerang: il debito al 160% del Pil in una notte

Imagoeconomica Sara Minelli

Un articolo di Alfredo Macchiati su FIRSTonline ha già dato conto di numerose criticità contenute in un lavoro su Italexit pubblicato da Mediobanca Securities che annovera fra i suoi autori, oltre agli analisti della casa, anche Marcello Minenna, il funzionario della Consob che per qualche giorno è stato assessore a Roma nella giunta Raggi. Alle osservazioni di Macchiati, ne aggiungiamo un’altra che, a nostro avviso, induce a trarre conclusioni opposte rispetto a quelle degli autori del lavoro.

Il punto è molto semplice. Secondo Mediobanca, in caso di uscita dall’euro e di successiva svalutazione, l’Italia registrerebbe una perdita suoi titoli che non possono essere ridenominati nella nuova valuta, ovvero un aumento dell’equivalente in nuove lire dell’ammontare da rimborsare all’investitore che ha diritto ad essere rimborsato in euro. Conseguirebbe però un guadagno sui titoli che potrebbero essere ridenominati. Quest’ultima affermazione non è corretta, perché sui titoli convertiti in lire la svalutazione non darebbe luogo né a un guadagno né a una perdita.

La ridenominazione, posto che sia davvero possibile, avrebbe l’effetto di evitare sì una perdita – quella che invece si ha sui titoli che rimarrebbero in euro o in valute terze – ma in nessun modo darebbe luogo a un guadagno. Da qui consegue che non è vera l’affermazione centrale del lavoro, secondo cui l’Italexit non porterebbe a un forte aumento del rapporto debito/Pil, ma darebbe addirittura luogo a un piccolo guadagno, quantificato in 8 miliardi.

In un lavoro di prossima pubblicazione con Lorenzo Codogno, proviamo a fare i conti giusti. Prendiamo per buone le tre ipotesi chiave alla base del lavoro di Mediobanca: a) che possano essere ridenominati i titoli emessi prima del 2013, anno nel quale fu introdotta la Collective Action Clause (CAC) che vieta esplicitamente la ridenominazione; b) che in seguito all’Italexit la lira svaluti del 30% (il che significa che il prezzo di una lira scende da, poniamo, un euro a 0,70 euro); c) che siano corrette le stime di Mediobanca riguardo al totale delle passività dello Stato che non possono essere ridenominate (compresi i derivati a valore di mercato e i titoli emessi in valute terze): tali passività ammontano alla bella cifra di 1.092 miliardi di euro.

Ebbene, con una svalutazione della lira del 30%, il costo in lire svalutate di quei 1.092 miliardi di euro aumenterebbe del 42,9%, ossia la percentuale dell’apprezzamento dell’Euro rispetto alla lira (il reciproco di 0,70 meno uno). In valore monetario, assumendo un cambio iniziale di 1 a 1 fra euro e nuova lira, ciò significa che, in seguito alla svalutazione, il debito aumenterebbe di 468 miliardi di lire, che sono il 27 punti percentuali di Pil. Quindi il rapporto debito/Pil passerebbe dal 133% al 160% in una notte. Non proprio un grande affare, né qualcosa per cui valga la pena di affrettarsi.

Inoltre è forse opportuno tenere conto che, secondo Standard and Poor’s, una ridenominazione sarebbe considerata alla stregua di un default, con tutte le conseguenze del caso sulla credibilità del paese e quindi sulla possibilità di rifinanziare sul mercato il debito pubblico. Ecco cadere, allora, anche l’ipotesi che si possano ridenominare i vecchi titoli senza subire conseguenze troppo gravi.

In questo scenario, senza possibilità di ridenominazione, il debito oggi al 133% aumenterebbe del 42,9% (sempre nell’ipotesi che la lira svaluti del 30%): +57 punti percentuali di Pil. Il debito schizzerebbe dunque al 190% del Pil. Auguriamoci che Mediobanca e anche gli economisti vicini ai 5 Stelle affinino le loro analisi. Ci andiamo di mezzo tutti.

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