Il 25 marzo è stato presentato il rapporto dell’Istat sulla competitività dei settori produttivi. Oltre all’interesse di questa fondamentale diagnostica della capacità produttiva del Paese, è nuova e rilevante la posizione degli imprenditori che sono intervenuti alla tavola rotonda: il responsabile di Confindustria per le piccole imprese, Robiglio, ha dichiarato e argomentato che “piccolo non è bello” e la piccola dimensione è solo una fase nella crescita dell’imnpresa
Tutti gli economisti indipendenti, dopo aver apprezzato la resilienza mostrata dal sistema produttivo negli anni 80, segnalavano come l’innovazione e quindi la crescita della produttività necessitassero di dimensioni maggiori delle imprese, non solo per competere a livello internazionale, ma anche per partecipare alle global value chains.
L’Istat mostra come “le vincenti”, che altri chiamano “imprese alla frontiera”, siano le imprese che esportano, le imprese che investono negli intangibles, dai brevetti alla formazione, e che possono permettersi di pagare salari più alti e diffondere questi aumenti a tutta la filiera e poi al resto della società. Come ha ricordato Robiglio, sono queste le imprese che adottano il welfare aziendale, perché tengono al loro capitale umano. Robiglio ha persino ricordato il 66% di imprese a conduzione familiare e la necessità di separare proprietà e management, perché il primo asset dell’impresa di successo è il capitale umano del management come del resto delle maestranze.
L’Italia è l’unico paese della Area Euro in recessione: dal lato dell’offerta ciò è spiegato dalla bassa produttività totale e dal peso delle imprese che non esportano né fanno parte di filiere esportatrici. Quelle cioè che invece d’investire corrono a tirare le gonne di mamma-stato per una svalutazione in più.
Invece le imprese esportatrici vincenti sono state capaci di crescere nel contesto della concorrenza internazionale e rappresentano l’elemento trainante del Pil dal terzo trimestre del 2012: tra il 2010 e il 2017 la crescita delle esportazioni italiane, come quella della Francia e della Germania, è stata guidata dal “margine intensivo”, ovvero dall’aumento del valore delle esportazioni nei mercati già conquistati , ma anche il “margine estensivo”, ovvero l’ aumento dei prodotti e/o dei paesi in cui si esporta, è stato pari a circa un terzo della variazione totale.
Ma in un commercio estero caratterizzato da global value chains, l’Istat analizza le interazioni tra fornitori nazionali ed esteri per valutare l’impatto delle esportazioni sull’economia nazionale calcolando la quota di valore aggiunto nazionale o estero delle sue esportazioni. Come si vede dal grafico seguente, le quote di valore aggiunto straniero e nazionale delle esportazioni italiane sono in linea con quelle degli altri maggiori paesi europei.
In questo contesto di ormai alcuni decenni di GVC, il tasso di cambio non svolge alcun ruolo importante, come si vede dal grafico seguente:
E per concludere con un’immagine che dovrebbe colpire anche il no-euro più miope, ecco le relazioni tra settori produttivi di Italia e Germania che spiegano anche il ruolo positivo che gioca la Germania nel mettere in contatto le imprese italiane con il ciclo economico internazionale, più favorevole di quello europeo da quasi un decennio.