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Israele-Iran alla “resa dei conti: la guerra è più vicina con effetti incalcolabili sul mondo”: intervista a Stefano Silvestri (Iai)

Imagoeconomica

“Credo che siamo alla resa dei conti, forse lo scontro fra Israele e Iran non è più evitabile, la guerra fra i due Paesi sembra essere sempre più vicina. Con effetti sul mondo intero incalcolabili”. Il professor Stefano Silvestri, esperto di questioni militari e già presidente dello Iai, l’Istituto di affari internazionali, ha l’abitudine di pesare ogni parola e se stavolta non sceglie né di sfumare né di raffreddare, è perché ritiene la situazione mediorientale sul serio fuori controllo.

Silvestri, perché è così pessimista?

“La resa dei conti fra i due acerrimi nemici è questione solo di tempo e poco oramai. Ci sarebbe una qualche possibilità di fermare il conflitto, ma tutto dipende dalla capacità, sia dell’Iran sia di Israele, di controllare le loro pulsioni estreme, ma non so se lo vogliono o lo possono fare”.

Descriviamo lo scenario

“Partiamo dal fatto che l’Iran si sarebbe mantenuto volentieri sulla linea della prudenza, come ha fatto finora, perché sa di non poter vincere questo scontro. Netanyahu invece lo scontro lo vuole perché immagina di poter ridisegnare il Medioriente. Basti ricordare i cartelli che ha presentato durante il suo discorso all’ ONU, mostrando la “benedizione” del Medioriente con Israele al centro e la “maledizione”, con l’Iran come perno. 

La guerra è stata aperta dall’Iran, ma con tempi accelerati. Perché Teheran lo ha fatto? Non so se abbia ragione un mio amico analista che, facendo il paragone del presente con le guerre del Peloponneso, sostiene che l’Iran, come Sparta, ha deciso di attaccare Israele-Atene ora, prima che divenga, grazie anche agli accordi di Abramo (ndr: firmati nel 2020 fra Usa, Israele, Emirati Arabi Uniti, Bahrein ai quali si sono poi aggiunti Marocco e Sudan), troppo potente. I ruoli però non sono così chiari. Ci si potrebbe interrogare su chi sia Sparta e chi è Atene, in questo contesto. Nel caso delle guerre peloponnesiache, ricordiamo inoltre che Sparta portò i persiani in Grecia. E le guerre non finirono, anzi.

Torniamo all’oggi

Tornando al nostro tempo, ai risultati dell’attacco iraniano di mercoledì scorso, i 180 missili lanciati su Israele potrebbero aver fatto danni più consistenti di quelli che sostengono gli israeliani, ma ci sono stati pochi morti e non si saprà mai quanti obiettivi militari siano stati colpiti visto che essi sono top secret. Di sicuro non ci sono stati danni che hanno paralizzato Israele. Ora si attende la risposta israeliana. Non si sa se vogliano attaccare obiettivi nucleari oppure se punteranno direttamente a indebolire il regime, dando una possibilità alle forze di opposizione di prendere il potere. Entrambi gli obiettivi sono molto difficili: per raggiungere le riserve di uranio bisognerebbe bombardare con armi che vadano molto in profondità essendo state queste riserve molto ben nascoste sottoterra; quanto all’opposizione ricordiamo che il popolo non è armato, mentre le milizie dei pasdaran sì; poi bisogna sempre vedere il rapporto dei pasdaran con l’esercito, ma è un altro discorso di cui non sappiamo nulla. La cosa certa è che la vittoria israeliana porterebbe comunque all’indebolimento complessivo di tutti gli Stati in Medioriente, cioè ne uscirebbero a pezzi, con il terrorismo e il fanatismo, trionfanti. E tutto ciò influenzerà anche il resto del mondo islamico e soprattutto l’Africa. Insomma, si possono solo immaginare scenari difficili e instabili. Per questo mi auguro che Netanyahu scelga una risposta moderata, ma non posso esserne certo”.

Cosa sta provocando l’attacco israeliano in Libano e, come effetto collaterale, in Siria?

“In entrambi i Paesi Hezbollah è dominante, come partito e forza armata. Se viene fortemente ridimensionato, come sta avvenendo sotto la spinta dell’attacco israeliano, questo offre alle strutture statuali libanesi l’occasione per riequilibrare le proprie politiche. E se questo si estende anche in Siria ciò rimette in discussione il dominio di Assad, lasciando campo aperto alle forze contrarie a Hezbollah. Non credo che questo porterebbe al crollo di Assad perché egli è appoggiato dai russi, ma di sicuro ne uscirebbe fortemente ridimensionato. Ecco perché si parla di nuovi equilibri. Sempre precari, è vero, perché Assad resterebbe al potere e Hezbollah non sarebbe distrutto, cosi come rimarrebbero vivi Hamas ed altri gruppi terroristici; ma è chiaro che gli esponenti sunniti avrebbero una vita più facile. Non i palestinesi, però, per i quali non si immagina ancora nulla, solo che la ferita resterebbe aperta e impedirebbe nuovi accordi con Israele. Come ha ricordato il principe Saudita, Mohammed Bin Salman, quando ha detto che la ripresa del dialogo con Gerusalemme è difficile proprio a causa della guerra a Gaza contro i palestinesi. Perché, appare chiaro oramai, che se c’è una cosa che ha prodotto quell’attacco, è che esso ha resuscitato la questione palestinese nelle capitali arabe”.

Quando Israele ha iniziato l’attacco a Gaza aveva in mente tutto ciò? Cioè che sarebbe seguito quello al Libano e di qui il (possibile) scontro con l’Iran? 

“No, nessuna strategia, tutto è accaduto per caso. Gli avvenimenti partono dal 7 ottobre dello scorso anno con la strage e il rapimento di cittadini israeliani. Non era nei piani di nessuno, solo di Hamas, che ha accelerato un processo che non si voleva accelerare. Netanyahu ha colto la palla al balzo per rimanere al potere. Con una differenza fra l’operazione di Gaza e quella del Libano: la prima è stata un fallimento totale, con gli ostaggi perduti, i 41mila morti fra i palestinesi, le immagini della distruzione implacabile e inutile. La seconda invece, con le esplosioni dei cercapersone, il duro colpo a Hezbollah con l’assassinio del suo leader Nasrallah, è stata un successo, con le quotazioni del Mossad e dell’esercito mai così alte. Ed è evidente che una guerra con Iran salderebbe ancora di più lo spirito nazionale”. 

C’è ancora tempo per evitare una catastrofe? 

“In crisi di questo genere i calcoli dei governi non sempre sono logici e possibili, non si ha il pieno controllo della situazione, siamo su un piano inclinato ed è facile scivolare”. 

In questi giorni la polemica italiana ha avuto come uno dei centri la nostra partecipazione alla missione militare in Libano chiamata Unifil. Un suo parere?

“Unifil non ha un mandato con forze sufficienti per il controllo della cosiddetta Striscia blu. Ha il mandato di sostenere l’esercito libanese, ma l’esercito libanese non ha la forza, e qualche volta nemmeno la volontà, di opporsi a Hezbollah. Con il risultato che la Striscia è incontrollata e spesso violata dai miliziani sciiti che vanno e vengono dal confine. Adesso però che gli israeliani sembrano aver distrutto, o continueranno a distruggere, i nidi di resistenza di Hezbollah, per Unifil la missione è più semplice”.

Quindi lei li lascerebbe lì…

“Sì, lascerei la situazione così come sta. I militari Unifil potrebbero essere utili nel caso si raggiungesse un nuovo accordo e potrebbero fornire un minimo di copertura, sia al Libano sia a Israele, al termine di eventuali operazioni militari”. 

Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, è stato considerato persona non gradita da Israele che accusa l’Onu di nuovo antisemitismo: che cosa ne pensa?

“Respingere l’Onu non è mai una mossa intelligente. Quanto a Guterres, egli è molto influenzato dal fatto che la maggior parte delle Nazioni nell’assemblea dell’Onu è anti israeliana. Ovviamente la situazione è peggiorata di gran lunga dopo gli attacchi a Gaza. Io però non credo sia questione di razzismo o antisemitismo, penso piuttosto si tratti di una differenza politica e religiosa, e già tutto ciò basta a seminare astio e conflitti”. 

Le elezioni americane possono cambiare qualcosa?

“Lo faranno, sia se vinca Harris sia se vinca Trump. Unica differenza fra i due è che se vince Harris possiamo immaginare che la politica americana non cambi granché; se invece vince Trump non sappiamo nulla. Forse Netanyahu ritiene Trump più congeniale, ma io lo riterrei un alleato difficile, perché con lui si può negoziare quasi su tutto, ma non si può essere sicuri di niente. Insomma si tratta di resistere a novembre, dicembre e gennaio, durante i quali continuerà ad amministrare Biden, che sarà molto indebolito se vince Trump, ma avrebbe meno problemi se passasse Harris”. 

In conclusione: quanto dobbiamo avere paura per il prossimo futuro?

“Non è un segno di buona salute del sistema se le guerre locali si allargano e se non si vede non solo una capacità di mediazione, ma una volontà di negoziazione. In questo momento abbiamo di fronte nemici che vogliono la distruzione l’uno dell’altro e non sono disposti a compromessi. Putin non lascia spazi a mediazioni sull’Ucraina. Così come Netanyahu non vuole mediazioni su Gaza e sul Libano, e neppure lo fa l’Iran. Queste sono guerre che sembrano guerre esistenziali, un tipo di guerra molto pericolosa perché può portare solo ad estremi. Sarà possibile restare fuori da una guerra simile? Forse sì, ma non senza effetti collaterali. Il più grave di tutti, dobbiamo esserne certi, sarà l’aumento esponenziale del terrorismo. Insomma, sì, bisogna essere preoccupati”.

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