Il lutto e il senso di colpa sono stati psicologici che anche il fondatore della psicoanalisi, Sigmund Freud, ha studiato a fondo e dei quali ha scritto molto. Si esprimono essenzialmente nella dimensione individuale e spesso sono collegati tra loro in maniera stretta a formare un trauma duraturo. Possono diventare, in speciali circostanze, fenomeni collettivi che accomunano il sentire di migliaia di persone o di un’intera comunità o perfino di una nazione? Certamente, e in questo caso si può senz’altro parlare di un trauma collettivo o nazionale. Può tornare una comunità a una vita normale dopo aver esperito un tale trauma? E quanto tempo le occorre?
È quello che si sta chiedendo, dopo i fatti del 7 ottobre in Israele, la scrittrice e psicologa di Tel Aviv Ayelet Gundar-Goshen. Seguiamo il suo ragionamento che è molto interessante e soprattutto avviene in presa diretta, visto che la psicologa segue dei casi clinici. Il suo racconto aiuta anche a decifrare, fuori dagli schematismi e dalla lontananza geografica ed emotiva, quello che sta succedendo nella tormentata Palestina.
A Eliat
Eliat è una città turistica del sud di Israele. Qui sono stati trasferiti oltre 30.000 cittadini evacuati dalle zone confinanti con la striscia di Gaza dopo i fatti del 7 ottobre.
La città di Eliat ha accolto con calore questi profughi e i negozi si sono affrettati a offrire sconti, promozioni e si sono organizzati eventi speciali. Ma il mood della gente è pessimo. Basta un niente perché emerga in tutta la sua negatività.
Per esempio, quando alcuni palloncini che adornavano il centro commerciale di Eliat sono scoppiati, come accade a tutti i palloncini, si è verificato un fuggifuggi: i clienti si sono messi a urlare fuggendo all’impazzata, hanno iniziato a correre verso le uscite e alcune persone sono cadute a terra spinte dalla calca. Una signora è svenuta.
A provocare questa reazione inusuale a un fatto semplice e usuale è proprio quel trauma collettivo prolungato che è seguito al massacro del 7 ottobre. Un fenomeno che si sta dispiegando in tutto il paese senza che ancora si riesca a capire quali possano essere le sue conseguenze sulla vita dell’intera nazione e senza sapere neppure in quale modo uscirne.
È sempre “Sabato nero”
Più di 1400 persone sono state uccise nell’attacco a sorpresa di Hamas, un evento noto in Israele come “Sabato Nero”. Decine di migliaia di persone sono rimaste bloccate nelle loro case per molte ore sotto una pioggia di razzi.
Anche coloro non direttamente nel mirino dell’azione terroristica si sono trovati a essere testimoni diretti delle atrocità che Hamas, peraltro, ha trasmesso in diretta. Gli israeliani disperati di notizie dei loro parenti o amici si sono infatti collegati ai canali mediatici di Hamas e hanno trovato immagini che li perseguiteranno per sempre.
I centri di supporto per la salute mentale stanno facendo fatica ad affrontare la situazione. I sintomi variano: ipervigilanza ed estrema ansia, paura di uscire di casa, incubi, depressione. Quando Ayelet Gundar-Goshen è andata a Eilat per aiutare i sopravvissuti, con una delegazione dell’ospedale psichiatrico Shalvata, ha rilevato un altro sintomo che si è presentato più e più volte: la colpa.
La colpa del sopravvissuto
Le persone si torturano sul fatto che siano stati i loro figli ad essere presi in ostaggio e portati a Gaza e non loro che adesso sono al sicuro. Come è possibile che il loro coniuge sia stato ucciso, mentre loro sono sopravvissuti? Come hanno potuto non proteggere la loro famiglia, i loro amici, la loro comunità? Alcuni non riescono a smettere di pensare a che cosa avrebbero potuto fare di diverso da quello che hanno fatto e odiano se stessi per essere sopravvissuti.
In una famiglia, oggi in lutto profondo, è successo che un padre si è nascosto in una stanza sicura con i suoi figli. I terroristi hanno dato fuoco alla casa. Allora lui ha preso la bambina ed è saltato dalla finestra, ma ha lasciato il bambino indietro. Non ci sono parole per descrivere l’orrore e la colpa di questo padre distrutto da quello che ha fatto e che probabilmente era la sola opzione che aveva.
La colpa logora i sopravvissuti e impedisce a molti di cercare aiuto: alcuni sentono di meritare la sofferenza che patiscono, una sorta di punizione per essere rimasti in vita. Altri pensano di non avere il diritto di ricevere aiuto quando così tante persone si ritrovano in una situazione talmente drammatica.
La colpa del sopravvissuto non è limitata alle persone che hanno vissuto il massacro. È una malattia contagiosa, non meno del Covid-19.
Una nazione impossibilitata a tornare alla vita normale
Una donna è fuggita dopo che un razzo ha colpito il suo edificio. Da tre settimane non lascia la casa in cui adesso vive. Di notte guarda fuori dalla finestra con terrore. Quando le è stato chiesto come riusciva a rilassarsi, ha parlato di quanto le piacesse la musica, soprattutto Taylor Swift. Ma quando le è stato suggerito di fare una passeggiata e ascoltare un po’ musica, ha reagito con stizza. “Ci sono 239 israeliani rapiti e mi state dicendo di ascoltare Taylor Swift tranquilla su un prato?”
Per quanto riguarda questa paziente e molti altri, riprendere una vita normale è una profanazione, un abbandono degli ostaggi e uno sfregio ai morti. Anche le persone che non sono passate per l’inferno si stanno chiudendo in una cella psicologica.
Si concedono pane e acqua e nient’altro, in una profonda e dolorosa identificazione con coloro il cui mondo è stato distrutto. Con tutto il paese che sanguina, come può essere possibile sorseggiare un caffè, andare a lavorare o camminare nel parco?
Rimettersi in moto
Essere felici, ridere, fare l’amore, tutto ciò sembra impossibile ora. Poiché la società civile possa riprendere il suo corso, si deve cogliere ogni scintilla di vita che può ancora manifestarsi. Quando si rifiuta di vivere e ci si rinserra in una capsula, si dà al nemico quello che voleva: portare un regno di terrore e dolore nella propria vita.
Anche la scelta di ascoltare Taylor Swift può essere considerato un atto vitale, un segno della scelta di vivere. Per continuare a sostenere i sopravvissuti, si deve, prima di tutto, rimettere la gente in piedi, farla stare sulle proprie gambe.
Il trauma collettivo ha un prezzo mentale, ma anche uno economico. Comunità lontane dalle linee del fronte hanno sospeso completamente il loro modo di vivere: molti tengono i loro figli a casa da scuola. I negozi sono vuoti, i caffè sono deserti, il commercio e il traffico sono praticamente cessati. Negozi di abbigliamento e ristoranti hanno messo i loro dipendenti in congedo senza stipendio.
Portare a casa gli ostaggi
Enormi cartelloni lungo le autostrade di solito pubblicizzano prodotti o servizi. Ora mostrano volti sorridenti: Yahel Shoham, tre anni, rapita da Hamas; Raz Asher, cinque anni e Aviv Asher, tre anni, rapiti; Tal Goldstein, nove anni, rapito.
Questi volti sono tatuati nei cuori degli israeliani. Troppe vite civili sono state perse, prima in Israele e ora a Gaza. Il trauma è così profondo, da entrambi i lati del confine.
È incredibilmente difficile immaginare che una cura possa mai essere possibile, ma riportare a casa gli ostaggi è il primo passo degli israeliani verso la guarigione.
. . .
°°°°°Tratto da Ayelet Gundar-Goshen, Israelis grapple with the collective trauma of October 7, “The Financial Times”, 10 novembre 2023
. . .
Ayelet Gundar-Goshen si è laureata in Psicologia clinica all’Università di Tel Aviv. Scrive per uno dei principali quotidiani israeliani ed è attivista del movimento per i diritti civili del suo paese. È anche autrice di pièce che hanno riscosso successo di critica e vari premi, tra cui il Berlin Today Award e il New York City Short Film Festival Award. Il suo romanzo Una notte soltanto, Markovitch ha vinto in Israele il Premio Sapir per la migliore opera prima. È stato tradotto in italiano da Giuntina e Feltrinelli. Sono disponibili in italiano anche altri suoi romanzi: Dove si nasconde il lupo, Neri Pozza; Svegliare i leoni, Giuntina che diventerà anche una serie TV prodotta alla BBC e infine Bugiarda, Giuntina.