Si pensava che la gente avrebbe letto sugli iPad e invece è successo che la gente legge sugli iPhone e sugli smartphone di grande formato. Si pensava che la gente avrebbe visto i film e le serie TV sull’iPad e invece è successo che li guarda sull’iPhone o sui televisori connessi a Internet. Si pensava che l’iPad avrebbe rivoluzionato il mondo dell’informazione e dei libri e invece a rivoluzionarlo sono stati Facebook e Amazon. Si pensava che i pendolari si sarebbero immersi nei loro tablet durante i trasferimenti da e per il lavoro e invece mettono la testa nei loro smartphone, sempre più ubiqui negli scompartimenti ferroviari e anche per strada.
Io stesso, quando uscì l’iPad, pensavo di far tutto sul tablet e di prendere un Nokia da 25 euro per le telefonate. Invece è successo che faccio tutto sull’iPhone e uso l’iPad per leggere il quotidiano alla sera prima di coricarmi. All’inizio cambiavo l’iPad ogni anno e adesso ho sempre quello acquistato nel 2014. Mi basta e avanza.
L’iPad pro avrebbe dovuto mettersi in concorrenza con i laptop e infine prenderne il posto sui posti di lavoro e nelle libere professioni; un’idea, peraltro, condivisa dall’ex-arci-rivale Microsoft che con i suoi Surface si era messo per primo in questa rotta di collisione con i portatili ultrasottili. Ora è successo che il nuovo capo di Microsoft, Satya Nadella, sta mettendo in soffitta il Surface, riposizionandolo verso un’utenza premium con esigenze speciali. È come dire che farà la fine del Microsoft Phone.
Anche in questo segmento del mercato l’iPad pro è in stallo. I professionisti continuano a preferire gli ultrasottili e la Apple, che aveva posizionato in una fascia di prezzo sempre più alta i propri MacBook per fare spazio all’iPad pro, sta adesso facendo marcia indietro e si parla di nuovi modelli che dovrebbero tornare in una fascia di prezzo ragionevole, quella dell’iPad pro, appunto.
La Apple ha venduto circa 400 milioni di iPad dalla sua introduzione nel 2010; un numero ragguardevole, ma stagnante e addirittura declinante dal 2013. Nello stesso periodo di tempo ha messo nelle mani dei suoi clienti un miliardo e mezzo di iPhone.
La cosa migliore che si può dire sull’esperienza dell’iPad è che non ha rispettato le aspettative delle origini. Ma se l’iPad è andato sotto le aspettative della Apple, ha avuto un ruolo importante nel forgiare la mentalità dell’ecosistema dei nuovi media. Come spesso diceva Steve Job succede di sovente che si progetta un prodotto che poi ti porta da tutt’altra parte rispetto al pensiero originario.
Difficile adesso non dare ragione a Jan Dawson, analista capo della Jackdaw Research, quando accompagnò l’iPad con queste parole: “Il ruolo dell’iPad è probabilmente il più vago di quello di qualsiasi altro prodotto Apple. Non è per niente ben definito”.
La sirena dell’iPad
A spendere parecchio tempo dietro l’iPad sono stati proprio gli operatori dell’informazione e dell’editoria, cioè quel comparto dell’industria culturale che lo aveva reclamato come la panacea di fronte all’azione disgregatrice del loro modello di business attuata da Amazon e dal web gratuito. Gli editori intravedevano nell’iPad l’opportunità di rimodellare la loro offerta di contenuti combinando, grazie a questo nuovo rivoluzionario device, il meglio del mondo della stampa e del web. Il primo ad aderire al concetto jobsiano di device rivoluzionario fu Rupert Murdoch che creò un vero e proprio quotidiano, The Daily, distribuito esclusivamente sull’iPad.
Altri media partner di Apple investirono tempo, risorse umane e denaro per costruire dei prodotti per iPad. Esquire, Fortune, Better Homes e Gardens si unirono per vendere un abbonamento simil-Netflix per dozzine di titoli e di magazine in versione iPad. Apple costruì un’apposita area dell’AppStore — “Edicola” (Newsstand) –, poi dismessa, per raccogliere tutta l’offerta di informazione per i suoi device mobili.
Gli editori di libri iniziarono a pubblicare nuove versioni di libri digitali, anche in forma di applicazioni, che includevano contenuti multimediali in grado di utilizzare al meglio le potenzialità dell’iPad. La categoria libri dell’AppStore a un certo punto conteneva più prodotti di tutte le altre ad esclusione dei videogiochi. iBookstore, il negozio di libri lanciato da Apple insieme all’iPad, a un certo punto fu inondato da prodotti di questa natura per il cui sviluppo la Apple aveva predisposto dei tool molto sofisticati a paragone di quelli resi disponibili dalla concorrenza, cioè da Amazon.
A un certo punto, alla fine 2012, Apple ha pensato perfino di portare i libri di testo sull’iPad, predisponendo un tool di sviluppo per creare manuali interattivi tagliati su misura per l’iPad. Un’iniziativa che, questa volta, fu però snobbata dai grandi editori che controllano il mercato della scolastica, un comparto ad alto margine che si intende presidiare con ogni mezzo. Dopo appena tre anni dal suo lancio l’iPad era tornato al punto d partenza e da lì è iniziata anche la stagnazione delle vendite
Il tempo perduto dagli editori
La maggioranza di questi tentativi si dimostrò presto un flop soprattutto se messo in relazione alle aspettative e alla promessa che l’iPad avrebbe cambiato il mondo dell’informazione e dell’editoria. Un qualcosa che non è accaduto e che ha contribuito a depistare lo sforzo dei media tradizionali di costruire un business sostenibile sul digitale. Se gli editori, invece di inseguire le promesse dell’iPad, avessero attuato una diversa scaletta di priorità focalizzandosi, per esempio, su Facebook, sul video, sugli smartphone, sui podcast e su altre promettenti aree dei media digitali, forse oggi sarebbero in un punto più avanzato della loro transizione ai nuovi media.
In una recente intervista David Carey, presidente di Hearst Magazines con un passato ai vertici di Condeé Nast, ha dichiarato “Allora lo scenario era questo: tutti pensavamo che l’iPad fosse il device dominante ed è successo che ad esserlo è l’iPhone, l’iPhone a grande schermo”.
Il mondo degli editori ha messo del tempo a riconoscere che il consumo di contenuti è oggi smartphone-centrico o iPhone centrico e, aggiungerei anche, che è tele-centrico. Tutto quello che sta nel mezzo ha un ruolo marginale o ancillare. E l’IPad sta nel mezzo, è sospeso a mezz’aria. Da lì però si vede un bel panorama.
Il device-centrismo della “vecchia” Apple
L’approccio iPad-centrico è costato alla Apple il mercato educational, un’area importante della sua attività alla quale lo stesso Jobs aveva sempre guardato con grande attenzione e premura. Google ha sottratto ad Apple il mercato educational con i suoi Cromebook a basso prezzo e la suite di servizi e di applicazioni che le scuole possono acquisire con un investimento contenuto. Nel 2014 l’iPad aveva il 26% del mercato scolastico USA contro il 38% del Cromebook e il 25% di Microsoft. Alla fine del 2017 la situazione era del tutto mutata: iPad 12%, Microsoft 22% e Cromebook 60%. L’iPad ha ceduto metà della sua quota di mercato a Google. Un segnale piuttosto chiaro che la Apple ha interpretato in chiave meramente di prezzo.
Il 26 marzo in un istituto superiore di Chicago, il management Apple, capitanato da Tim Cook, ha presentato la nuova soluzione Apple per il mercato scolastico… E questa soluzione è ancora e tristemente iPadcentrica, device-centrica. Insieme a un iPad da 299 dollari (con lo stilo, 359 dollari) la Apple ha proposto una suite di applicazioni molto interessanti e avanzate che potrebbero essere davvero quelli di cui la scuola ha bisogno.
Tra queste c’è SchoolWork che permette ai docenti di organizzare e monitorare il lavoro in classe in modo semplice e diretto. L’app è accompagnata da un tool, ClassService, che consente agli sviluppatori di creare applicazioni ancillari e di supporto a SchoolWork, che quindi può essere personalizzato a seconda dei bisogni didattici e organizzativi dell’insegnante e della sua classe. Il team di Cook ha inoltre mostrato un nuovissimo tool “Everyone can Create” per realizzare in modo assistito, visuale e condiviso contenuti multimediali e interattivi che possono sostituire le “antiche” dispense o le altrettanto “antiche” ricerche.
Qual è il problema? Tutto inizia e finisce con l’iPad. I servizi e i contenuti prodotti dalla suite Apple sono accessibili solo dall’iPad, ogni altro device è escluso. Una scuola, cioè una organizzazione che deve rendere conto a molti stakeholder tra cui le famiglie (che sono terribili), come può legarsi a un programma esclusivo di quel tipo? Non può!
Eppure la Apple aveva già ricevuto una lezione piuttosto severa dal mondo della scuola nel 2012. A New York, in pompa magna e all’interno di un evento specifico, Eddy Cue, uno dei più stretti e fidati collaboratori di Jobs, aveva presentato iBooks Author, un’applicazione per la creazione di contenuti digitali, sotto forma di e-book che avrebbero trovato posto in una specifica area dell’iBookstore. L’applicazione in sé era lo stato dell’arte per la creazione di libri digitali, libri di testo e manuali a forte componente interattiva. Questi libri digitali si potevano realizzare senza l’aiuto di sviluppatori, così come si crea un documento in un word processor. Alla fine il sistema autore produceva un file ePub HTM5 standard con l’eccezione di alcune righe di codice che ne circoscrivevano l’utilizzo. Quelle poche righe di codice rovinavano tutto.
Quale era il problema? Che questi ebook potevano essere letti solo sull’iPad. Per questa ragione questa applicazione di grande valore e che veramente avrebbe potuto avviare qualcosa di importante è stata snobbata dalle scuole e bellamente ignorata dagli editori scolastici che non avevano nessuna intenzione di investire in qualcosa di controllato interamente da una unica piattaforma. iBooks Author, che avrebbe potuto essere un’app destinata a chiunque desiderasse realizzare un ebook, di fatto era rivolta ai solo possessori di iPad, un cluster modesto del mercato. È naturale quindi che si sia mutata in un flop e non abbia aiutato il rilancio dell’iPad. La lezione però non è stata imparata dalla Apple e oggi a distanza di 6 anni ci ritroviamo al punto di partenza. Frustrante! Ma questa è la vecchia Apple, perché adesso ce ne è una nuova.
Il contenuto e la “nuova” Apple
L’alternativa al device-centrismo autarchico come quello pomposamente celebrato a Chicago c’è già e si inizia a vedere qualcosa di significativo. Tim Cook non perde occasione per ricordare agli analisti e al pubblico che la Apple si sta rapidamente trasformando una società media e di contenuti e che non occorre valutarla e giudicarla solo dall’hardware che produce. In effetti Apple realizza quasi 10 miliardi di dollari in contenuti; il fatturato di una società che può tranquillamente stare nella lista Fortune 500.
Ora le scelte per il mercato educational contraddicono clamorosamente questa visione e ci riportano indietro con la macchina del tempo alla Apple del 2012. Si poteva presentare qualcosa più in linea con la nuova Apple, cioè la Apple che si presenta al pubblico più come società media che come un’impresa che costruisce device, seppur di grande appeal. Dove non arriva il device, può arrivare il contenuto, e questo ambito è proprio la scuola. Può essere davvero una staffetta micidiale, ma ciascuno deve correre il proprio percorso in modo autonomo.
In questa nuova Apple il servizio e il contenuto non è più ancillare al device, non è più concepito in funzione del device, ma impatta l’utenza in quanto contenuto o servizio in sé.
Un esempio? La Apple sta investendo pesantemente nella produzione di originals televisivi (si parla di qualche miliardo di dollari) e sta aprendo a Culver City, Los Angeles, una nuova sede operativa (in quella che era la sede HBO, dunque l’aria è buona!) e un grande studio di posa a breve distanza da quella.
Ora gli originals prodotti da questo team Apple si potranno sì guardare sugli iPad, ma si potranno anche vedere su tutti gli altri dispositivi — di centinaia di differenti costruttori — se dotati una connessione a Internet. Un contenuto non può essere incapsulato in un dispositivo o in un determinato sistema di distribuzione, deve poter arrivare a tutti i potenziali fruitori a prescindere dal mezzo che utilizzano per accedervi. È questa la strada che deve intraprendere Apple, estendendo questo approccio a tutta la sua attività fuori dalla portata dei propri device. Scuola inclusa. Un ebook creato con l’app “Eberybody can create” deve poter essere condiviso e scaricato da tutti i dispositivi perché codificato in un linguaggio standard, così come effettivamente è già. Basta rimuovere due linee di codice ed è fatto.
Il bello dell’iPad
Se l’iPad come dispositivo ha mostrato i suoi limiti e il device-centrismo sta diventando una palla al piede, il contributo che questa esperienza ha dato all’industria dei media non si può certo sottovalutare. Tutti i principi di cui si è fatto veicolo e che costituiscono il suo DNA sono oggi di grandissima attualità. Inoltre l’iPad è stata un’enorme palestra per l’industria dei media e l’unico sistema ad essere penetrato in profondità nella mentalità e nell’azione dei gruppi media tradizionali.
L’accademia dell’iPad sta forgiando la nuova sensibilità riguardo ai media digitali. Che si debba pagare per i contenuti, che questi debbano avere un minimo di decenza prima di arrivare al grande pubblico, che vi sia rispetto per la privacy dei clienti che non può essere tratta come una merce, che la qualità abbia la meglio sulla quantità, che l’utente che acquista e l’autore che crea usifruiscano di una rete di protezione e di garanzia del proprio investimento, che il diritto d’autore non sia una foglia di fico sono oggi tutti punti caldissimi della conversazione pubblica sui media digitali. Sono anche l’agenda da cui non si può prescindere in uno scenario che vede l’egemonia di questo mezzo di distruzione nell’industria culturale. L’iPad ha inoculato questa cultura e se ne è fatto veicolo già in anni non sospetti.
Quello che oggi è richiesto alla Apple è solo un piccolo sforzo rispetto a quello immenso che ha già fatto: eliminare tre linee di codice dai suoi prodotti immateriali. È la stessa operazione che deve fare Amazon con i propri ebook.
Un piccolo passo per loro, un grande passo per noi.