Da sempre le Investment Banks statunitensi rivestono un ruolo nevralgico sul palcoscenico internazionale. Sin dai tempi della Commissione Pecora, a margine della grande crisi degli anni Trenta, furono evidenziate notevoli responsabilità per questi istituti nello scoppio e nell’espansione della stessa crisi. Allo stesso modo, risultato analogo è emerso dalle indagini in occasione della crisi del 2008, dove ancora una volta si è evidenziato il ruolo determinante di questi intermediari, come di recente suggellato dal patteggiamento di JP Morgan Chase che dovrà pagare 13 miliardi di dollari per le proprie infrazioni.
E, per tornare al 2008, tutti probabilmente abbiamo in mente le immagini dei dipendenti di Lehman Brothers che il 15 settembre di quell’anno escono, con gli scatoloni in mano, dall’imponente sede del colosso americano che qualche ora prima utilizzando il Chapter 11 dichiarava fallimento. Alla luce di questa centralità, è interessante comprendere come le Investment Banks reagiscano allo scoppio di una crisi di tale portata, osservando indicatori di redditività assoluta e relativa (come il ROA, Return on Assets, e il PCAV, Per Capita Added Value, cioè Ricavi netti/Numero di dipendenti).
Contrariamente a quanto ci si poteva aspettare, questi indicatori mostrano una crescita in termini di performance tra il periodo pre crisi e quello post 2008, evidenziando, quindi, dati molto contrastanti con i loro mercati di riferimento. Ad esempio, per Goldman Sachs il ROA era 0,78% nella media 2001-06 ed è stato 0,92% nel 2009-12 e il PCAV nei due periodi passava da 199 mila a 228 mila dollari.
Quanto detto fa emergere la tesi della responsabilità e quella della crescita in controtendenza, ma più interessante è comprendere le motivazioni che portano al raggiungimento di due strade opposte tra loro. In un primo momento, si potrebbe immaginare che tale andamento in controtendenza dipenda da un’evoluzione del business delle Investment Banks americane in termini strettamente operativi dopo lo scoppio della crisi. Però, questa tesi non trova reali fondamenta, in quanto, perlomeno nel periodo di riferimento, gli istituti in analisi hanno mantenuto una costanza in termini di attività core all’interno dei propri bilanci, non mostrando dati così significativi da giustificare l’ipotesi del cambiamento operativo. Perciò la forte controtendenza evidenziata sembra dipendere da altri elementi evolutivi.
La seconda ipotesi che si può considerare è, dunque, che le Investment Banks americane abbiano cambiato il proprio ambito territoriale. Infatti, quello dell’emigrazione verso nuovi mercati è sicuramente un passaggio fondamentale per questi intermediari, interessante è comprendere in che dimensioni e soprattutto per quali motivi questo accade. Un interessante strumento che può fungere da metro di valutazione per la misurazione di questo processo è sicuramente il numero di IPO, Offerte pubbliche di prima quotazione.
Dall’analisi dei dati relativi a questo strumento emerge come dagli inizi del duemila in poi vi sia un forte calo di questa particolare tipologia di operazione nei mercati sviluppati, sensazione questa che si rafforza dopo lo scoppio della crisi, evidenziando invece una netta crescita dell’operatività nel mercato asiatico, in particolare quello cinese. Ad esempio, il numero totale di IPO nei principali paesi sviluppati (Nord America, Europa e Giappone) era pari a 1586 nel 2004-05 ed è sceso a poco più della metà (863) nel 2010-11, mentre le IPO in Cina passavano da 256 a 801 portando il peso della Cina dal 16,1 al 92,8% in rapporto al totale dei paesi sviluppati.
Ovviamente, le Investment Banks americane, che avevano da decenni aperto uffici in Asia, hanno assistito la maggior parte di queste IPO e ciò ne ha determinato una migrazione territoriale del mercato principale di riferimento per questo tipo di attività.
Per avere un’idea di cosa potrà essere il mercato asiatico è interessante osservare come di recente la World Bank abbia tagliato le stime di crescita del mercato asiatico per il 2014 dal 7,8% al 7,1%, e per buona pace dei non appassionati alle teorie di relatività, si tratta di valori inimmaginabili per qualsiasi altro contesto economico, mentre la Cina si attesta su valori prossimi all’8%. Probabilmente ancor più interessante, è un’ulteriore analisi macroeconomica che emerge dai Plenum degli ultimi anni del partito comunista Cinese dove si pone come obiettivo quello di sostituire il dollaro con lo Yuan come valuta ufficiale delle riserve internazionali, definendo il dollaro come “prodotto del passato”.
Quella che nasce come una provocazione, diviene immediatamente una dura realtà confermata da una serie di elementi che vertono verso questo obiettivo. Come le ingenti quantità di riserve ufficiali detenute dalla Cina (il 35%), o una serie di accordi internazionali stipulati dal 2010 in poi e che vedono lo Yuan come moneta ufficiale delle transazioni, o i buoni emessi in Yuan da parte della World Bank per divulgare l’uso di questa moneta, ma ancor più forte è l’acquisto di petrolio in Yuan, da parte della Cina, dal 6 settembre 2012, bypassando il dollaro.
Quanto detto dà ancor più peso alla profezia del presidente Hu Jintao e, sempre più, l’impressione che il XXI secolo sarà per il dollaro ciò che è stato il XX secolo per la sterlina inglese, per buona pace di chi rappresenta il miracolo asiatico con delle tigri bianche di carta. Alla luce di queste analisi macroeconomiche diviene più semplice comprendere le motivazioni che hanno spinto le Investment Banks americane a espandere i loro business verso oriente. Dopo tutto, una delle lezioni della storia è che tende ad afferire all’economia dominante tanto la valuta degli scambi internazionali quanto il centro finanziario maggiore.
Quindi probabilmente il futuro non sarà semplice per le Investment Banks americane, le quali hanno saputo sfruttare una crisi finanziaria di portata internazionale, evolvendo i loro business e traendone dei vantaggi. Ora dovranno essere altrettanto lungimiranti nel comprendere sino a quando, alla luce dei loro business orientali, avere la sede a Wall Street possa essere un punto di forza e non di debolezza.