L’unica soluzione, pesante ma rapida, ai problemi dell’Eurozona, passa dal default e dall’uscita dall’euro della Grecia. Le alternative, cioè far leva sul fondo salvataggio attuale o non rafforzato in misura esponenziale, piuttosto che il passaggio ad una maggiore unione fiscale dell’Eurozona non sembrano in grado, vuoi per i tempi necessari vuoi per la complessità del processo, di convincere i mercati sulla ripresa dell’Europa. E’ questa la fotografia della crisi che John Greenwood, chief economist di Invesco, ha ribadito, giovedì 20 ottobre, nella City milanese davanti ad un pubblico scelto di clienti eccellenti della firm, una delle grandi realtà indipendenti dell’industria dell’asset management, prima che a Bruxelles si arrivasse all’accordo sul debito greco e sul fondo salva-Stati.
“Non crediamo che il vertice del G 20 possa portare novità significative a questo panorama: continuerà a mancare una materia prima fondamentale: la fiducia dei mercato” aggiunge Sergio Trezzi, 40 anni , da 11 anni in Invesco di cui è responsabile per Italia e Grecia, ma anche Germania, Austria. Benelux e Paesi Nordici. L’alternativa è il “grande bazooka” con accesso a migliaia di miliardi di euro “Ci piace molto – aggiunge – la soluzione del default perché è l’unica in grado di offrire, entro qualche anno, la prospettiva di una robusta crescita dell’economia greca in parallelo al rafforzamento degli altri Paesi dell’Eurozona”.
Gli altri scenari possibili per evitare la trappola del debito alla giapponese non sembrano in grado di scongiurare il rischio di un rallentamento della crescita. “Prevedo – è l’analisi di Grenwood, una crescita nell’Eurozona in frenata all’1,6% nel 2011, che cela un’ampia divergenza di performance tra le aree centrali in fase di rallentamento e quelle periferiche, stagnante o in fase di contrazione”. Eppure, nonostante i tassi di crescita bassi per il credito e la massa monetaria, l’andamento regressivo di salari e consumi e una certa capacità produttiva inutilizzata nella regione, “i prezzi delle materie prime, aumentati nella prima parte dell’anno, manterranno l’inflazione primaria attorno ad una media del 2,4% superiore al target della Bce. Ci vorranno alcuni mesi prima che Mario Draghi possa ridurre il tasso di rifinanziamento principale della Bce dall’attuale 1,5%.
Fin qui l’analisi macro di uno dei guru che vanta uno dei migliori “track record” dell’industria mondiale in questi anni di crisi, in Italia per spiegare, tra l’altro, la filosofia dell’ultima generazione di fondi bilanciati realizzati, dopo lunghi test, da Invesco, una delle grandi officine del risparmio mondiale: non più una semplice ripartizione percentuale dell’investimento tra azioni ed obbligazioni, che in questa anni si è dimostrata incapace di gestore il rischio in mercati volatili, bensì una strategia “risk parity”: ogni asset class (azioni, obbligazioni, materie prime) viene ponderata in maniera che ciascuna di esse possa apportare al portafoglio una percentuale di rischio identica, ottimizzando la composizione dell’attivo nelle diverse fasi del ciclo. Un modo per evitare brutte sorprese quando un asset per tradizione “tranquillo”, vedi i titoli di Stato, rischia di rivelarsi una scommessa da brivido.
“L’operazione ha avuto successo sui mercati Usa” spiega Trezzi. “Da due anni – aggiunge. Stiamo testando il prodotto sui mercati europei”. Già, ormai i tempi di analisi e test di un prodotto finanziario ricordano da vicino quelli dei prodotti industriali più significativi, tipo un automobile. Anzi, l’introduzione della realtà virtuale nella progettazione di un veicolo ha ridotto (con notevoli inconveniente, a giudicare dall’aumento dei componenti da ritirare dal mercato) i tempi di introduzione di un veicolo. Ma non quelli di un Etf o di una formula di gestione di un fondo capace di affrontare le tempeste. Anche questo operazioni con una capacità di fuoco finanziario adeguato. Un processo ancora agli inizi, in Italia. “E’ così – conferma Trezzi – anche se vanno sfatati alcuni luoghi comuni”.
Di che tipo?
“Innanzitutto, non è affatto vero che l’asset management sia un’industria in declino o dove si guadagna poco. Alcuni competitor internazionali, in Italia, ottengono ottimi risultati al pari di alcuni concorrenti italiani. La realtà è che c’è spazio per strutture indipendenti e dedicate a questo business”.
Altri luoghi comuni.
“L’Italia non ha come si crede, un pubblico di risparmiatori più immaturo di altri Paesi, Anzi, le esperienze negative accumulate in passato hanno avuto effetti benefici: oggi sempre di più il cliente mette il rendimento atteso in relazione alla duration e al massimo rischio che si intende sopportare. Infine”
Infine?
“Non è affatto vero che il sistema della consulenza italiana sia più arretrato. Al contrario, gli inglesi, tanto celebrati, stanno cercando di costruire piattaforme comuni per l’analisi e la gestione dei prodotti. In Italia questa è già la realtà delle 4-5 reti principali”.
Resta il problema dell’indipendenza.
“Il requisito fondamentale per un servizio al cliente adeguato. In Italia l’evoluzione del sistema è in ritardo rispetto al resto del mondo, ma credo che i tempi siano maturi”.
Perché tanto ottimismo?
“Finora la stagione degli M&A è stata ritardata dai valori di carico eccessivo delle società del gestito. Ma, complice Basilea 3 e la Ucits IV le banche dovranno rivedere la loro strategia: non si deve badare al prezzo di carico, ma bisogna vendere per realizzare. Sono convinto che sia questa la strada obbligata del sistema”.
Davvero le banche vanno incontro ad una stagione così complicata?
“Molto dipenderà dal sostegno che riceveranno. Ma una cosa è certa: tutti gli istituti sono oggi alle prese con investimenti studiati negli anni del boom per servire un mercato in crescita. Oggi, al contrario, è necessario adeguare l’offerta ad una domanda più bassa. Ed è importante concentrasi nell’area, cioè la banca commerciale, che offre i margini maggiori ed i rischi minori. Chi prima lo farà sarà il vincitore”.