L’ora delle scelte si avvicina. Gli analisti e tutta la comunità finanziaria si attendono che domani, nella conference call sul bilancio, l’ad di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, dica qualcosa di più sui progetti del gruppo per le Generali, anche se il lancio di una vera e propria offerta non è ancora sui blocchi di partenza. Certo è che, se l’operazione Intesa-Generali dovesse andare in porto, si aprirebbe una nuova era non solo per Intesa, per le Generali e per Mediobanca, che è il primo azionista del Leone di Trieste, ma per l’intero sistema finanziario italiano.
Ma i dubbi sono leciti e Messina, che medita da tempo su come riposizionare e far crescere la sua Banca lungo i sentieri del wealth management (risparmio gestito, private banking, assicurazioni) dopo averla resa tra le più solide d’Europa con un Cet1 del 13% e 715 miliardi di attivi, ha già messo le mani avanti, chiarendo che “non ci sarà nessuna operazione corsara” e che ci sono tre paletti ineludibili che orienteranno le scelte della banca: il patrimonio, il dividendo e il prezzo. Per la verità di rischi ce ne sono anche altri: le difficoltà di integrare banche e assicurazioni, come rivelano i fallimenti del passato di Allianz-Dresdner Bank, di Fortis, di Credit Suisse-Winterthur e la retromarcia di Ing, i possibili veti dell’Antitrust sull’eccessiva concentrazione delle attività assicurative sul mercato italiano ed europeo con il conseguente rischio “spezzatino”, la necessità di dover ridimensionare la presenza internazionale di Generali specialmente in Europa e, soprattutto, il pericolo di aprire involontariamente la strada a predatori stranieri da tempo a caccia del tesoro delle Generali.
Ragionare su tutti gli scenari possibili in una situazione più aperta che mai a mille soluzioni può essere suggestivo ma vale quel vale. Ciò che invece è fin da ora chiaro è l’importanza per lo stesso sistema Italia di un asset sensibile come è Generali e, al tempo stesso, la sua intrinseca debolezza. Sarà anche vero che il Leone non ha più l’aura magica che lo circondava quando sulla compagnia vigilava la Mediobanca di Enrico Cuccia e le segrete stanze della sede triestina erano animate da personaggi mitici come Cesare Merzagora prima e Antoine Bernheim e Alfonso Desiata poi, ma le Generali sono e restano, con un attivo di 496 miliardi, un gioiello unico sullo scacchiere finanziario italiano. Per almeno tre indiscutibili ragioni.
In primo luogo perché il Leone ha in portafoglio un tesoro di 70 miliardi di titoli del debito pubblico italiano, di cui è sempre stato ed è un pilastro di prima grandezza. In secondo luogo perché le Generali non sono solo uno degli ormai pochissimi grandi gruppi italiani ma sono anche uno dei rari grandi gruppi italiani realmente internazionali, presente in forze in Europa (Germania e Francia in testa) ma anche negli altri continenti (Cina inclusa). Infine con la loro leadership nel mercato delle polizze assicurative e con la loro dinamica presenza nell’asset management, le Generali hanno in mano una parte consistente del risparmio degli italiani e sono un polmone fondamentale dell’economia italiana.
Troppo spesso si usa a sproposito l’aggettivo “strategico”, che non è un sinonimo di importante ma molto di più, ma se per “strategico” si intende un asset che contribuisca in modo significativo alla formazione del Pil e che al tempo stesso sia “non replicabile”, non c’è dubbio che le Generali hanno tutte le caratteristiche per essere considerate strategiche non solo nel sistema finanziario ma più in generale nello sistema-Paese. E se le Generali sono strategiche, non deve stupire che l’establishment e le sue Autorità facciano fino in fondo la loro parte per difenderne l’italianità, in nome di un patriottismo economico che sarebbe piaciuto a un raffinato civil servant come Tommaso Padoa Schioppa (che ben conosceva le Generali anche per ragioni familiari) e che può benissimo conciliare gli interessi nazionali con le regole del mercato.
Le vicende di questi giorni, aperte dalle prime indiscrezioni sui disegni di Intesa, hanno messo in evidenza l’unicità di Generali ma ne hanno anche scoperto il lato debole sia nella governance che soprattutto nel suo assetto azionario. L’improvviso siluramento del direttore generale Alberto Minali dopo pochi mesi dal suo insediamento è solo l’ultimo atto di una lunga e spesso sorprendente serie di ribaltoni che ha portato l’anno scorso al divorzio dell’ad Mario Greco dalla compagnia dopo solo tre anni e, prima ancora, all’allontanamento del suo predecessore Giovanni Perissinotto, sfiduciato nel 2012 dopo solo due mesi dall’assemblea generale che lo aveva per la decima volta confermato alla guida delle Generali a larghissima maggioranza.
Siccome il presidente di Generali è un signore che si chiama Gabriele Galateri, che è uno dei massimi esperti di corporate governance che ci siano in Italia, non sono certo le regole formali della governance del Leone a lasciare perplessi, ma la loro origine che trova il suo punto di somma debolezza nell’azionariato delle Generali. E’ del tutto vero che le turbolenze al vertice sono un po’ nel dna delle Generali se solo si ricorda che perfino due personaggi che sono nel pantheon della compagnia come Bernheim e Desiata passarono spesso dal paradiso all’inferno e viceversa e furono incoronati e destituiti due volte, ma allora il grande regista del Leone era il dominus di Mediobanca, storico primo azionista, nella persone di Enrico Cuccia. Ma oggi quei tempi sono finiti, Mediobanca non è più né il salotto buono della borghesia né la stanza di compensazione del capitalismo italiano e Cuccia non ha eredi alla sua altezza. Scimmiottarne le gesta può solo portare guai.
La debolezza di Mediobanca, che riflette la sua irrisolta contraddizione tra le sue esigenze di banca d’affari e quelle di azionista della prima compagnia assicurativa italiana, ma anche l’insufficienza degli altri principali soci del Leone, attenti più alla gestione dei loro affari immobiliari o al rendimento di breve periodo del titolo borsistico che all’interesse della compagnia, sono alla base dell’instabilità delle Generali, malgrado la sua forza sul mercato e l’abilità dei suoi manager. Il conflitto d’interesse insito nella doppia natura di Mediobanca raggiunse la sua massima espressione proprio qualche anno fa, quando l’istituto di piazzetta Cuccia, pur essendo il primo azionista di Generali, fece di tutto per favorire le nozze tra Unipol e Fondiaria e per costruire il polo assicurativo concorrente del Leone. Gli sceriffi del mercato e della concorrenza non c’erano o, se c’erano, dormivano.
La verità è che Mediobanca ha continuato a muoversi e si muove come se Generali fosse una provincia di un impero che non c’è più, ma non ha saputo garantire stabilità e sviluppo alla compagnia, che da oltre 15 anni non fa un aumento di capitale, e oggi non avrebbe i mezzi per difendere il Leone nel caso si aprisse una fase di scalate e controscalate.
Un’epoca è finita ed è ora di prenderne atto. Prima si mette in sicurezza un tesoro come quello di Trieste meglio è. Purché non si dimentichi che le Generali non sono la Comit ma che Mediobanca non le merita più.