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Intervista a Mario Noera: “La guerra delle valute? Ora è in mano all’Europa”

INTERVISTA A MARIO NOERA – “Miccia accesa da Abe, ma ora il cerino è nelle mani dell’Europa” nella guerra valutaria – L’opinione dell’economista della Bocconi, che opta per l “Abenomics”: “Tokio ha ribaltato il tavolo mettendo la crescita in primo piano ma l’aspetto più inquietante riguarda il suo debito pubblico” – La svolta dell’Europa dopo il voto tedesco

Intervista a Mario Noera: “La guerra delle valute? Ora è in mano all’Europa”

La miccia della guerra delle valute l’ha accesa Shinzo Abe, il neo premier giapponese. “Ma il cerino ora è nelle mani dell’Europa” commenta il professor Mario Noera, docente in Bocconi in diritto ed economia dei mercati finanziari. La sua tesi è che la cosiddetta ”Abenomics”, espressione estrema del keynesismo, è destinata ad avere effetti profondi sugli orientamenti della politica economica globale, giunta al sesto anno della grande crisi.

Finora, però, si sono sottolineati i rischi di questa svolta espansiva. Il pericolo è che si destabilizzino i rapporti tra le valute e si scateni la guerra commerciale. E’ già successo negli anni Trenta…

Convengo che stiamo attraversando una terra incognita, ove non mancano i punti interrogativi. L’aspetto più inquietante riguarda l’ammontare del debito pubblico di Tokyo: una politica espansiva che poggia su una finanza pubblica così fragile può portare ad una svalutazione competitiva.

Con il rischio di attivare reazioni protezionistiche. O no?

Non è detto. Anzi non credo che sia questa la reazione più probabile, come dimostra il dumping commerciale cinese che dura da una decina d’anni. I rischi, però, ci sono. Ma a mio avviso prevalgono gli effetti positivi della svolta giapponese.

Quali effetti positivi?

Fare emergere, innanzitutto, la madre di tutti i problemi: la latente instabilità valutaria tra le varie aree economiche cui da dieci anni a questa parte non si sono date risposte. Fino al 2007 si discuteva, senza soluzioni concrete, del surplus commerciale cinese, e della sottovalutazione dello yuan che ne era all’origine. Poi, dopo lo scoppio della crisi dei subprime, una delle conseguenze del protrarsi dei tassi bassi legato agli squilibri valutari, il tema è passato in secondo piano. Un errore, perché i tassi sono il vero termometro di cui occorre tener conto per affrontare la crisi con un nuovo atteggiamento”.

Ovvero?

Ovvero la mossa giapponese rovescia il tavolo del consenso unanime alle teorie macroeconomiche che hanno dominato il dibattito negli ultimi trent’anni. Il dato che emerge è che l’edificio basato solo sulle liberalizzazioni, la globalizzazione senza vincoli, l’apertura delle frontiere del Wto alla Cina senza prima pretendere un riequilibrio in materie chiave per la competizione, è arrivato ad un punto estremo.

In che senso il cambio è il termometro di questa crisi?

Nel quadro attuale la vecchia politica economica, basata su ricette nazionali, non è più efficace. Non restano che due vie per riequilibrare i conti: 1) una politica espansiva che inevitabilmente va a colpire il cambio; 2) o, se si rinuncia alla leva del cambio, no resta che affidarsi all’arma della deflazione interna.

E’ un bivio a noi italiani ben noto.

Ma che non vale solo per noi. Il braccio di ferro in Usa sul budget federale riflette un confronto analogo che non è sui conti di ragioneria bensì tra diverse visioni del mondo. In questa cornice trovo positiva la novità in arrivo dal Giappone, paese che vive da trent’anni il paradigma della stagnazione. In un colpo solo sono stati spazzati via, tutti i tabù: l’eccessivo debito pubblico, il vincolo del cambio, il target di inflazione. In cima all’agenda c’è la necessità di tornare a crescere.

E ci riuscirà?

“Non credo. Anche perché, finora, si è puntato su un forte effetto annuncio, ma gli interventi veri non cominceranno prima del 2014. Ma quel che mi preme sottolineare è che finalmente si torna a parlare di come riattivare il motore della crescita. Non è un compito di un solo Paese, bensì richiede una forte iniziativa internazionale: ci sono Paesi che devono rimettere in moto la domanda interna, altri devono mettersi in condizione di esportare. E il cambio deve riflettere i nuovi equilibri.

Cosa che in Europa non può avvenire in regime di moneta unica. O no?

In Europa si riproducono gli stessi meccanismi del confronto globale; una volta che si è rinunciato all’arma del cambio come strument di riequilibrio del surplus commerciale bisogna attivare altri strumenti di coordinamento, quelli che fatica, con troppa fatica, si cerca di fare emergere a Bruxelles.

Nell’attesa non resta che l’arma della deflazione interna ...

Di cui stiamo subendo un po’ tutti gli effetti nocivi. Io credo che sia difficile, per questa strada, che l’Italia possa recuperar il 30% di competitività perduta nei confronti della Germania. Nel frattempo i costi sociali diventano sempre meno gestibili. E i risultati sono sempre più modesti visto che il debito, nonostante l’austerità, cresce in rapporto al pil. Senza parlare del costo legato all’enorme riduzione della capacità produttiva.

Insomma, un’iniezione di economia sushi in Europa potrebbe non guastare…

Io penso che se si vuol salvare l’Unione qualche riflessione in merito vada fatta. Non dimentichiamo che, fino a poche settimane fa, per l’Europa si parlava del rischio di precipitare in una sindrome giapponese. L’aspetto positivo è che, dopo quel che ha detto il capo economista del Fondo Monetario, Olivier Blanchard, già grande teorico dell’austerità, sia assai positivo che si passi dal confronto accademico ad un terreno più concreto. Anche perché alla fine del 2013, dopo le elezioni tedesche, la svolta potrebbe essere matura. O, magari, potrebbe essere imposta dall’evoluzione degli altri big player dell’economia mondo.

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