“Da 50 anni lavoriamo nell’ombra: nessuno deve sapere…”. Almeno fino a pochi giorni fa, quando Dario Ferrari, 78 anni, dal ’72 alla guida della “sua” Intercos, ha varcato la soglia di Piazza Affari superando quel cono d’ombra che ha protetto la straordinaria crescita della multinazionale di Agrate Brianza: 11 centri di ricerca e una presenza commerciale in 15 Paesi ove 5.200 dipendenti operano al servizio di 550 clienti, grandi e piccoli, rispettando una regola ferrea: nessuno, a partire dai concorrenti, deve sapere quel che esce dalla fabbrica di Agrate Brianza, dove si lavora il bulk, la materia prima grezza che a Dovera, nel cuore padano della “Lipstick Valley” (definizione dell’Economist) si trasformerà in rossetti, ombretti, ciprie e tutto quanto riempirà gli scaffali dei grandi magazzini sotto i marchi più diversi ed esclusivi, ma anche quelli più popolari. Il tutto per un giro d’affari che, a fine 2019, aveva toccato i 712 milioni di euro, scesi l’anno scorso in piena pandemia a 606,5 (i lockdown hanno pesato sulla divisione make-up), ma in pieno recupero come dimostra il dato del primo semestre (+13,4% a 314 milioni) chiuso con un utile di 17,5 milioni.
Tanto riserbo, degno dei laboratori della Nasa, non ha impedito alla famiglia Ferrari di crescere in media a doppia cifra per 50 anni, attraendo nel capitale azionisti del calibro del fondo sovrano di Singapore o altri big internazionali pur conservando il solido controllo del capitale e dei diritti di voto. Ma tanto charme, fino a pochi giorni fa, non aveva stregato gli operatori di Piazza Affari. Già nel 2014, infatti, Intercos aveva bussato alla porta del mercato italiano ma alla fine aveva rinunciato alla Ipo: “La società – recitava un comunicato – ha ritenuto che le condizioni dei mercati finanziari non consentano di ottenere una valutazione che rifletta fedelmente il reale valore intrinseco e le potenzialità della società”.
E così, scartata la Borsa, venne scelto come partner il fondo private americano Catterton poi affiancato dal fondo pensione Ontario teachers. Ad alzare bandiera bianca in quell’occasione fu anche la Tip di Gianni Tamburi che pure aveva già investito in Intercos in vista del processo di quotazione. Un secondo tentativo, annunciato a fine 2019, è andato a vuoto per lo scoppio della pandemia. E anche in quell’occasione la mancata Ipo venne compensata dall’arrivo di un grande investitore, il Gic di Singapore. Ma, si sa, non c’è il due senza il tre. Lo sbarco trionfale in Piazza Affari ad inizio settimana rappresenta così il punto finale di un fidanzamento tormentato durato sette anni. Ma anche l’avvio di un capitolo nuovo, all’insegna di due scommesse: Piazza Affari sarà in grado di far da trampolino di lancio per una multinazionale ex tascabile, mostrando la via ad altre realtà italiane finora restie alla quotazione? L’azienda, dal canto suo, saprà tener fede alla fama acquisita di grande terzista globale dell’industria della bellezza?
Per rispondere all’ultimo quesito può servire rifarsi alle origini. Dario Ferrari è un figlio d’arte perché la sua famiglia produceva creme per il corpo in Svizzera. Ma, racconta, vuol farsi strada da solo. Va a Londra dove lavora come assistente di un account pubblicitario da cui, si legge in una sua rara intervista, “ho imparato come capire posizionamento, comunicazione, punti deboli e di forza delle aziende”. E’ un know-how che applica di ritorno in Italia, piazzando i prodotti di famiglia ma con il fiuto di saper interpretare le tendenze che, inizio anni Settanta, stanno iniziando a modificare schemi e comportamenti. Nel ’78, sei anni dopo la nascita di Intercos, il primo vero successo: un ombretto più brillante e più facile da applicare, realizzato con la stessa tecnologia utilizzata dal caffè Hag per estrarre la caffeina dai chicchi. E’ il biglietto da visita che gli aprirà le porte di Estée Lauder, la maison Usa che, tra l’altro, deve buona parte della sua fortuna alla scelta di manager italiani come Franco Freda, oggi uno dei ceo più pagati ed apprezzati di Wall Street. Per Ferrari è un’investitura che, contratto dopo contratto, lo farà diventare una figura chiave dietro le quinte della cosmesi, quel che Foxconn è per i grandi della tecnologia come Apple, tanto per intenderci. Il suo segreto sta in un sistema di produzione molto flessibile, capace di venire incontro alle esigenze di un cliente che chiede milioni di pezzi ma anche dell’influencer che vuol mettere su una piccola linea da zero. Un sistema, insomma, che serve sia una Volkswagen che un prototipo di Formula 1.
Ma non è una semplice questione organizzativa: l’importante è saper usare le antenne. Ecco quel che ha raccontato il ceo Renato Semerari. “Abbiamo sviluppato un sistema sofisticato di marketing intelligence per individuare i trend futuri. Siamo presenti con quindici uffici commerciali e marketing in città significative: da San Paolo a Los Angeles, da New York a Milano, Parigi, Londra, Seoul, Shanghai. Questo ci dà la possibilità di avere antenne per vedere cosa succede nell’arte, nella moda e nel lifestyle locali”. Dalla Brianza, insomma, si dipana un network che copre da Los Angeles a Seul, al servizio del sex appeal della casalinga di Voghera o dell’impiegata di Shanghai. “Lavoriamo – ha aggiunto – con i più grandi professionisti del settore: non solo con le multinazionali, ma anche con il makeup artist di Hollywood, la celebrity americana o l’influencer asiatica. Poi componiamo un puzzle di informazioni che integriamo con il social listening e le analisi di Google Analytics, e così abbiamo un quadro completo”.
A me gli occhi, verrebbe da dire. Ma non va trascurato l’altro aspetto fondamentale: il mix scienza più tecnologia perché “senza gli ingegneri certe idee rischiano di restare tali”. Ne parla, in un incontro con WWD, la Bibbia del fashion Usa, Arabella Ferrari, la vice presidente. Dopo anni di studi e ricerche, rivela, i tecnici di Intercos hanno messo a punto sostanze naturali che garantiscono la stressa flessibilità di impiego delle microplastiche, senza però effetti tossici. E’ una ricerca continua perché “il mercato cambia rapidamente. Ma ancor più rapidamente sale la richiesta di ingredienti puliti”.
Insomma. dietro un rossetto ci vuole intuito, marketing, competenze di intelligenza artificiale, ricerca sui materiali. Ma la cosa più difficile è combinare le esigenze diverse di 550 clienti che, a loro volta, si rivolgono a milioni di possibili consumatori. No, non sarà facile imitare l’attività della premiata ditta di casa Ferrari, frutto nobile della “Beauty Valley”, uno dei distretti industriali più vivaci del made in Italy.