In Italia sono 16 milioni i pensionati: 8,3 milioni sono donne, 7,7 milioni uomini. A loro vengono destinati 312 miliardi di euro di trattamenti, il 40% dei quali però è però inferiore ai 1.000 euro al mese. Questi alcuni dei numeri contenuti nel XXI Rapporto Annuale pubblicato oggi dall’Inps e presentato alla Camera dal presidente, Pasquale Tridico. Uno studio dal quale emerge un gender gap pensionistico e salariale sempre più ampio e quantificato in 6mila euro nel primo caso e in 4mila nel secondo.
Quanto costano le pensioni?
Dalla fotografia scattata dall’Inps si evince che nel 2021 l’istituto ha erogato 20,8 milioni di trattamenti previdenziali. Su un totale di 16 milioni di pensionati, al 31 dicembre 2021 l’Inps corrispondeva una pensione a 15,5 milioni di pensionati, di cui 7,4 uomini e 8,1 donne (pari al 52%) per un costo pari a 305 miliardi di euro di pensioni erogate, di cui solo 44% corrisposto alle donne. Dal momento che il totale delle prestazioni era pari a 20,8 milioni, vi è una quota di pensionati che riceve più di una prestazione (20% degli uomini e 33% delle donne).
Sul totale delle uscite a pesare di più sono pensioni di anzianità/anticipate (56%), seguite da quelle di vecchiaia (il 18%) e dalle pensioni ai superstiti (14%). Le prestazioni agli invalidi civili rappresentano il 7% del costo complessivo, mentre le pensioni di invalidità e pensioni e gli assegni sociali arrivano, rispettivamente, al 4% e al 2%.
Pensionati: quasi il 40% ha un reddito sotto i 12mila euro, penalizzate le donne
Nel capitolo dedicato alle “pensioni povere” si legge che lo scorso hanno il 40% dei pensionati ha ricevuto un assegno inferiore ai mille euro mensili, pari a un reddito pensionistico lordo inferiore ai 12mila euro l’anno. Se però si considerano le integrazioni al minimo, come quattordicesima e maggiorazioni sociali, la percentuale scende al 32%.
Il rapporto passa poi ad analizzare il gender gap pensionistico. Come detto, su 15,5 milioni di pensionati, 8,2 milioni sono donne (il 52% del totale). Dei 304 miliardi destinati al pagamento delle pensioni però, solo il 44% è andato alle pensionate. Da considerare inoltre che nel 2021 la differenza tra uomini e donne nel reddito pensionistico è stata di oltre 6mila euro. Il rapporto sottolinea come il divario derivi dalla netta prevalenza degli uomini nelle pensioni anticipate, ovvero quelle di importo più elevato, mentre le donne prevalgono nelle pensioni ai superstiti e in quelle di vecchiaia. Secondo l’Inps, inoltre, il gap pensionistico sarebbe riconducibile a retribuzione oraria (differenza del 17% nel settore privato), tempi di lavoro (part time) e anzianità contributiva (differenza del 40% nel 2001 scesa al 25% nel 2021). Nel complesso gli assegni pensionistici degli uomini sono superiori del 37% di quelli delle donne.
Nel corso della presentazione del report alla Camera, Tridico ha fatto il punto anche sul reddito di cittadinanza: in tre anni (aprile 2019-aprile 2022), 2,2 milioni di nuclei familiari – pari a 4,8 milioni di persone, hanno ricevuto il sussidio, per una spesa complessiva pari a 23 miliardi di euro. L’importo medio mensile risulta per il mese di marzo 2022 pari a 548 euro per nucleo familiare.
Il lavoro povero
Il rapporto annuale dell’Inps parla anche di lavoro. Ebbene, dal report emerge che quasi 4 milioni di lavoratori guadagnano cifre inferiori alla soglia Reddito di cittadinanza, vale a dire meno di 6mila euro all’anno. Nel 2005 erano 2,5 milioni, con una crescita del 10% dal 2005 al 2021. Ad oggi, inoltre, sono 257 contratti nazionali di lavoro sotto i 1.500 euro lordi al mese, di cui 11 in settori che hanno oltre 100mila dipendenti. Questo significa che 4,5 milioni di lavoratori guadagnano meno di 9 euro lordi all’ora.
“Il Rapporto – ha spiegato Pasquale Tridico alla Camera – propone un esercizio di simulazione in cui sono state ricostruite le contribuzioni accumulate nei primi 15 anni di carriera lavorativa dalle generazioni nate tra il 1965 e il 1980, alle quali si applica esclusivamente il sistema contributivo. Una parte di loro non è riuscita a guadagnare retribuzioni superiori a quello che equivarrebbe oggi ad un salario minimo di 9 euro lordi orari. Se si introducesse un tale salario minimo, i loro profili contributivi si alzerebbero significativamente, in media del 10 per cento. Anche questo esercizio dimostra che donne e giovani sono maggiormente colpiti da salari bassi. In sintesi, abbiamo bisogno di più lavoro e di lavoro meglio retribuito se vogliamo assicurare al Paese la sostenibilità del suo sistema di welfare”.
Facendo un’analisi generale del mercato del lavoro italiano, l’Inps fa sapere che nel 2021 i dipendenti pubblici e privati erano 19,3 milioni (+1% rispetto al 2019), ma quasi la metà – 9,5 milioni – ha lavorato solo una parte dell’anno, con 3 milioni di persone (-50% rispetto al 2020) in cassa integrazione. Di questi 9,5 milioni, il 46% (4,4 milioni, +18% sul 2019) era donna.
Così come accade per il reddito pensionistico, anche per quello da lavoro esiste un forte gender gap. Lo scorso anno le donne hanno guadagnato in media 4 mila euro all’anno meno degli uomini (-25%, 20 mila euro contro 24mila, ma -8% se confrontiamo lavori stabili e continui).
L’inflazione potrebbe pesare sulla spesa per le pensioni
L’aumento dell’inflazione nel 2022, con una crescita dei prezzi che a fine anno potrebbe assestarsi sull’8%, potrebbe pesare sulla spesa per pensioni dell’Inps nel 2023 per 24 miliardi. L’Inps ha aggiunto inoltre che sulla base dei dati al primo gennaio 2020 (quindi senza calcolare lo shock della pandemia e della guerra) il disavanzo patrimoniale dell’Istituto potrebbe arrivare a 92 miliardi nel 2029.
“Non esiste un problema di sostenibilità – hanno spiegato – ma c’è un warning. Ci vuole crescita economica e produttività per un sistema in equilibrio”.
Le misure intraprese dal Governo per il sostegno dei redditi a fronte dell’aumento dell’inflazione “sembrano andare nella giusta direzione di non innescare una spirale inflazionistica, intervenendo a sostegno dei redditi, soprattutto quelli medio-bassi”, ha affermato il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico. “In questo contesto, dice, si esplica nuovamente l’impegno dell’Istituto, in relazione ai bonus sociali e all’indennità di 200 euro erogata con il Decreto Aiuti, facendosi tramite verso ben 31 milioni di utenti tra lavoratori, pensionati, disoccupati. La maggioranza delle indennità è erogata d’ufficio dall’Istituto”. Il dato tiene conto anche di quelle anticipate dalle aziende e compensate con l’Inps.
Il costo e le opzioni della flessibilità in uscita
Nel report si ricorda che alla fine del 2022 si concluderà anche “l’esperimento” Quota 102, che da inizio anno ha preso il posto di Quota 100. Se la politica non riuscirà a trovare una nuova soluzione, dal 1° gennaio 2023 si tornerà dunque alla legge Fornero. Gli esperti dell’Inps hanno stimato l’impatto sui conti pubblici di tre ipotesi sul tavolo per rendere più flessibile in uscita il sistema pensionistico:
- opzione uno: il ricalcolo contributivo dell’assegno che consentirebbe l’uscita ai lavoratori ancora in parte “retributivi” con 64 anni di età e almeno 35 di contributi a condizione di aver maturato un importo del trattamento pari ad almeno 2,2 volte l’assegno sociale. Costo: 900 milioni il primo anno e arriverebbe ad assorbire quasi 3,8 miliardi nel 2029.
- opzione due: uscita anticipata con penalizzazione. 64 anni di età e 35 di contributi, ma una penalizzazione del 3% della pensione retributiva per ogni anno d’anticipo. Costo: poco meno di un miliardo il primo anno e fino a 5 miliardi nel 2029.
- opzione tre: anticipo della sola quota contributiva dell’assegno (“proposta Tridico”). Anticipo della sola quota contributiva della pensione a 63 anni d’età e con 20 anni di contribuzione per poi recuperare la fetta retributiva al raggiungimento dei requisiti di vecchiaia. Costo: 500 milioni il primo anno e 2,5 miliardi nel 2029.