Gridare al lupo è un’espressione presente in molte lingue. Viene usata per prendere in giro chi paventa sciagure imminenti che poi non si realizzano. A volte però si dimentica che, nella favola di Esopo, il lupo, alla fine, arriva per davvero. Il pastorello, che aveva gridato al lupo tante volte per prendersi gioco dei soccorritori del villaggio, grida di nuovo ed è spaventato a morte, ma dal villaggio non arriva nessuno. Ai bugiardi, conclude Esopo, non si crede nemmeno quando dicono la verità.
Al lupo dell’inflazione non credettero i mercati a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta. A dire il vero, quella volta, nessuno gridò al lupo perché nessuno ne aveva mai visto uno dal 1946. Quello del 1946, si pensava, era stato un episodio di pochi mesi legato al debito di guerra da smaltire, una fiammata e basta. Lo stesso era successo alla fine della prima guerra mondiale. In tempo di pace, però, il lupo, in terra americana, non si era mai fatto vedere. E fu così che il lupo, per tutti gli anni Settanta, si mangiò le pecore, il pastorello e tutti gli obbligazionisti che per anni rimasero dietro la curva dell’inflazione, anticipandone una ridiscesa che non si verificò.
Da allora due generazioni sono cresciute vedendo l’inflazione andare da una parte sola, verso lo zero. Chi, negli anni recenti, ha ipotizzato una riaccelerazione dei prezzi legata al ciclo economico in ripresa e all’aumento sempre più aggressivo della base monetaria attraverso il Quantitative easing è stato smentito dai fatti e messo nell’angolo. Oggi quasi nessuno osa più parlarne se non, paradossalmente, le banche centrali, che vengono a loro volta derise per la loro incapacità di creare inflazione.
E così succede che è molto più elegante e al passo con i tempi parlare di possibile deflazione che non di inflazione. La deflazione è legata a fenomeni inquietanti ma affascinanti come la robotizzazione del lavoro, la globalizzazione, l’eccesso di offerta. Chi ha l’età per ricordare non avrà dimenticato certi discorsi sull’automazione e sulla società opulenta degli anni Sessanta, poco prima che arrivasse il lupo. Parlare di inflazione evoca invece le atmosfere grigie e spente degli anni Settanta, gli scioperi, la scarsità, le fosche profezie sulla stagnazione e sulla fine delle risorse del Club di Roma.
Cose che sanno di vecchio e di triste. Ipotizzarle oggi è eccitante come una minestra riscaldata.
E però, guarda guarda, non è forse un lupo il 2.3 di inflazione Cpi (ex food ex energy) raggiunto nei giorni scorsi in America? E che ci facciamo con il Treasury decennale all’1.63 se l’inflazione è già al 2.3 e se la Fed ce la mette tutta per farla salire ancora?
Che facciamo allora, vendiamo tutti i bond e ci mettiamo short di duration? Strategicamente sì, me nel breve e forse anche nel medio possiamo prendercela ancora abbastanza calma. Quello che è entrato in giardino non è un lupo feroce, ma un cucciolo timido e fragile che ispira così tanta tenerezza che tutti ce lo contendiamo per giocarci insieme. Come fosse un panda in via di estinzione è coccolato e nutrito amorevolmente da banche centrali e mondo accademico, ma nonostante gli sforzi fa tanta fatica a crescere e tutti sono preoccupati per la sua salute.
Un lupo gracile può facilmente ammalarsi. Nei prossimi due-tre anni avremo verosimilmente episodi di ricaduta dell’inflazione e di ripresa dei corsi obbligazionari. Difficilmente però avremo nuovi minimi di inflazione e nuovi massimi dei bond. Restare immobile tra questi alti e bassi permetterà comunque, a chi ha obbligazioni corporate o emergenti, di godere di un certo rendimento, di questi tempi non disprezzabile. I tre anni potranno poi culminare, nella peggiore delle ipotesi, in una recessione superficiale che ridarà smalto ai bond (solo ai più sicuri, però).
Insomma, la vita non è finita per i bond anche se le banche centrali stanno conducendo complesse manovre che, per la prima volta da anni, stanno portando a un rialzo, non a un ribasso, dei rendimenti della parte lunga della curva. La Banca del Giappone, che è il laboratorio monetario del mondo intero, ha appena fatto salire i rendimenti dei Jgb decennali di 30 punti base, così come sono saliti i rendimenti dei Bund e dei Treasury. Attenzione, però. Non si tratta di politiche restrittive, ma di misure di preparazione in vista dell’espansione fiscale ormai dietro l’angolo. Una seconda motivazione per la fine dei tassi negativi sulla parte lunga è quella di incentivare le banche a rilanciare la loro funzione di maturity transformation, quella per cui ci si indebita a breve termine per prestare a lungo (un lavoro redditizio solo se c’è una differenza tra i tassi a breve e quelli a lungo).
In pratica si stanno mettendo in ordine le curve e si aumentano i tassi a lungo sapendo che l’inflazione, per effetto delle politiche fiscali e della maggiore attività delle banche, salirà ancora di più dei tassi a lungo. La Banca del Giappone ce lo spiega con la massima chiarezza quando concede ai Jgb un rialzo di 30 punti base di rendimento (che comunque rimane a zero) in cambio di un obiettivo di inflazione sopra il due per cento.
Fino a oggi abbiamo vissuto la prima parte della repressione finanziaria. I tassi reali sono negativi ormai da sette anni ma solo una minoranza, quelli che sono stati in cash per tutto questo tempo, è stata penalizzata. Tutti gli altri hanno goduto di capital gain su bond e azioni. Ora inizia, sia pure molto lentamente, la seconda parte, quella in cui i rendimenti reali diventano ancora più negativi (per effetto dell’aumento dell’inflazione) e i capital gain scompaiono o diventano addirittura capital loss.
Anche i lupi piccoli e malaticci, col passare degli anni, arrivano al momento della riscoperta della loro identità di predatori. A volte occorrono anche dei decenni, ma il momento arriva sempre. Non importa che ci sia poca crescita, quello che importa è che la poca crescita, a un certo punto, finisce con l’assorbire tutte le risorse inutilizzate, soprattutto se la produttività non cresce.
A giocare a favore dell’inflazione è anche il ciclo politico. I governi resistono meglio all’inflazione che alla deflazione. I peronisti argentini, Mugabe, Chavez e Maduro hanno navigato per decenni nell’inflazione. Chi tollera o addirittura promuove la deflazione ha invece vita breve e, se non cambia velocemente direzione, viene presto sostituito a furor di popolo da un reflazionista, anche il primo che capita.
Il bravo e serio cancelliere Bruning riuscì a condurre le sue politiche austere e restrittive dal 1930 al 1932, ma poi perse consenso e fu sostituito, qualche mese dopo, dalla reflazione nazionalsocialista. I prudenti conservatori francesi furono spazzati via, nel 1936, dal Fronte Popolare e dai suoi grandi aumenti salariali. Hoover fu troppo timido nel reflazionare e fu sostituito dagli elettori con il Roosevelt della svalutazione e del New Deal.
Tutti esempi legati alla Grande Depressione, si dirà. Ma era successa la stessa cosa mezzo secolo prima, quando la lunga depressione del 1873-1893 portò il populista William Jennings Bryan a un passo dalla Casa Bianca. Bryan era un silverita, chiedeva cioè di reintrodurre la monetazione d’argento accanto a quella aurea in modo da avere più moneta in circolazione e fermare la discesa dei prezzi. Bryan perse le elezioni del 1896 (vinte alla fine dal monometallista repubblicano McKinley) solo perché la produzione di oro nel mondo era finalmente e improvvisamente aumentata grazie alla cianurazione e all’entrata in funzione delle grandi miniere del Transvaal. Morale. O reflaziona chi è al potere o reflazionerà presto qualcun altro al posto suo.