GESTIRE L’EMERGENZA, LAVORARE PER IL FUTURO
In analogia con gli altri paesi occidentali, il Governo italiano ha varato misure per iniettare liquidità nel sistema, perseguendo l’obiettivo di salvaguardare la sopravvivenza di aziende e lavoro, drammaticamente colpiti dal Coronavirus.
Eppure, queste iniziative, salvo un necessario, primo intervento di recovery, potrebbero non risultare sufficienti, mentre graveranno sicuramente sul debito pubblico.
Il declassamento di Fitch è un segnale di come l’Italia si trovi oggi ad affrontare una sfida assai più grande e complessa di quella che vivono gli altri paesi occidentali.
La crisi da Coronavirus si è infatti abbattuta su un contesto economicamente già estenuato. Segnato da anni di gestione politica incerta, senza programmi di sviluppo, privo di azioni per ridurre il debito pubblico, salvo l’ormai stucchevole querimonia verso l’Unione Europea. Con una parte della classe imprenditoriale troppo spesso alla finestra, o impegnata a spostare i propri quartier generali nel Regno Unito e in Olanda, alla ricerca di vantaggi fiscali.
LA PERICOLOSONA INUTILITÀ DEI FINANZIAMENTI A PIOGGIA
Un’indiscriminata iniezione di liquidità (questo appare, in larga misura, l’orientamento del Governo) si aggiungerebbe a quella cui le aziende hanno già attinto in abbondanza durante questi lunghi anni di tassi ai minimi storici. Non avrebbe altro effetto che ingigantire l’indebitamento dei soggetti economici. Come conseguenza si manterrebbero in vita realtà marginali e non competitive, al solo scopo di salvaguardarne l’occupazione.
In concreto, l’industria non riacquisterebbe competitività, lo Stato non sarebbe in grado di diminuire il proprio debito, mentre le banche verrebbero penalizzate nei loro rating, a causa del più elevato rischio di credito.
Usare il debito per tenere in vita un’economia malata dunque, può diventare molto pericoloso: è un grande azzardo per il futuro.
UN PIANO DI RILANCIO PER L’INDUSTRIA
C’è un’altra strada, oggi praticabile grazie alle ingenti risorse finanziarie messe a disposizione dall’emergenza pandemica.
Essa consiste nel lanciare un grande piano nazionale, mirato non solo a rafforzare la nostra economia, ma anche a prepararla ad affrontare da protagonista “il new normal” oggi di fronte a noi.
Partendo dalla ristrutturazione e dal conseguente rilancio del settore industriale: una forte industria manifatturiera infatti, è indispensabile a garantire buona occupazione, un saldo attivo della nostra bilancia dei pagamenti e una spinta vitale all’innovazione.
Per muoversi in questa direzione non sono oggi accettabili scorciatoie stataliste (nuove forme di intervento pubblico come panacea per tutti i mali) mentre c’è bisogno di un coinvolgimento dell’imprenditoria, in termini sia di idee che di finanza, per ricucire quella trama da tempo spezzata tra governo dell’economia e mondo industriale.
Un grande patto di co-investimento dunque, con l’impegno di affrontare tre nodi cruciali: 1) l’aumento dimensionale delle imprese e il loro riequilibrio finanziario, 2) la riconversione verso settori a maggiore valore aggiunto, 3) la migrazione diffusa al digitale.
DIMENSIONI DI IMPRESA E RIEQUILIBRIO FINANZIARIO
Il 73% delle imprese italiane è di piccola o piccolissima dimensione, rispetto al 44,9% della Germania (che di piccolissime ne ha solo il 6% contro il 22,5% dell’Italia) e al 41,2% della Francia (dati Eurostat, 2017).
Piccola impresa non è solo sinonimo di bassa produttività e questo termine non spiega a fondo cosa ci sia, in un gran numero di casi, dietro la piccola dimensione. Ci riferiamo alla scarsità di risorse e capacità manageriali, all’arretratezza nei sistemi di gestione, alla dipendenza nell’export, da dealer e grossisti con conseguente riduzione dei propri margini.
Pensiamo, infine, a un certo tipo di imprenditoria che ha preferito non crescere pur di mantenere il controllo, non investire nelle proprie aziende pur di cercare extra profitti nella finanza.
Queste piccole imprese sono per lo più caratterizzate da una minore capacità di generare reddito dalla gestione operativa, hanno un alto indebitamento (sbilanciato sul breve termine) e un capitale proprio troppo basso rispetto ai mezzi di terzi.
In un contesto sempre più internazionale e tecnologicamente avanzato, dove altissima è la concorrenza di player globali, è impensabile che esse possano sopravvivere a lungo. Piccola dimensione e alto indebitamento non lo consentono. O si incrementa la massa critica (sviluppo interno, acquisizioni, aggregazioni), oppure si esce rapidamente dal mercato.
AUMENTARE IL VALORE AGGIUNTO, FAVORIRE LA RICONVERSIONE
La debolezza del piccolo inoltre, si rileva nella sua subordinazione all’interno delle supply chain globali: il valore prodotto dalle imprese italiane è significativamente inferiore a quello delle omologhe tedesche e francesi.
Per esemplificare, è naturale che il valore di un’automobile sia più elevato della somma dei suoi singoli componenti. E l’Italia, salvo poche eccezioni, non produce auto, ma, componenti appunto: freni, frizioni, scatole del cambio e così via.
La supply chain è governata da chi gestisce il mercato finale e poche delle nostre aziende si trovano in questa posizione, mentre la grande maggioranza ne è dipendente.
Uno sguardo infine, al made in Italy. Dietro l’Italian style oggi si muovono multinazionali che hanno sede in altri paesi. In Italia restano, salvo apprezzabili eccezioni, tanti produttori terzisti, i più minacciati dalla concorrenza globale.
Sostenere chi intenda risalire lungo le supply chain globali per integrarsi e avvicinarsi al mercato finale, oppure chi voglia riconvertire la propria produzione verso beni a più alto valore aggiunto, deve essere l’obiettivo primario del sistema finanziario e di quello imprenditoriale.
Il paese è ricco di competenze: dall’avionica, allo spazio, alla robotica. Produciamo beni strumentali di ottima qualità. Si stimolino queste direzioni di crescita disincentivando quelle maggiormente vulnerabili.
Qui rientra anche il tema oggi attuale del reshoring: perdere il controllo di produzioni strategiche, non solo nel settore sanitario, ma anche in quello delle telecomunicazioni e dell’informatica è inaccettabile.
ACCELERARE LA MIGRAZIONE DIGITALE
Pubblico e privato dovranno infine concertare assieme un piano Industria 4.0 di grande respiro. Se dal lato politico ci si è finora limitati a iniziative tutto sommato circoscritte (che pure hanno dato i loro frutti), sul fronte imprenditoriale gli incentivi erogati poco sono serviti allo scopo reale per cui erano stati concepiti: consentire la trasformazione digitale delle nostre imprese.
Il Coronavirus sta accelerando trend in atto da tempo. Una più elevata automazione favorirà il distanziamento sociale e la sicurezza nei luoghi di lavoro, la diffusione dei big data e dell’AI ci aiuteranno a lavorare meglio da remoto.
La trasformazione digitale è un abilitatore che ci permetterà di convivere con i rischi della pandemia.
Si stanno ridisegnando i canali distributivi: online shopping e delivery automatizzata per minimizzare i contatti umani, la manifattura additiva (stampa 3D) per supplire agli shock delle supply chain. Interi settori (telecomunicazioni, e-commerce, pagamenti digitali, telemedicina), sono già in forte crescita e le loro applicazioni stanno estendendosi.
L’industria italiana deve accelerare la sua trasformazione al digitale ed associarne tutte le potenzialità ai propri punti di forza.
Il paese ha bisogno di un cambiamento decisivo, di una “distruzione creatrice” che attinga alle sue risorse e competenze migliori.
È indispensabile agire in modo focalizzato, consapevoli che orientare l’industria verso nuove traiettorie di crescita richiederà inevitabilmente scelte discriminanti e provvedimenti impopolari. Un’azione congiunta dell’iniziativa politica e di quella imprenditoriale, con il necessario coinvolgimento delle organizzazioni dei lavoratori, potrà consentirlo.
Si esca, una volta per tutte, dalla logica del rinvio, che trasmette inevitabilmente il debito pubblico di generazione in generazione.
Risorse da mobilitare, anche private, una volta creato un percorso condiviso e credibile, ce ne sono e in abbondanza.
°°°°L’autore insegna Economia industriale e Finanza d’impresa all’Università Politecnica delle Marche
Menghini per fare quello che Lei sostiene ci vuole uno Stato e un sistema- Paese forte ..e non 21 patetiche “signorie”