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India, per l’economista Chakravarty il divario uccide la crescita e i mercati non si fidano più

L’economista indiano Sukhamoy Chakravarty, nel suo ultimo libro “The Indian Economy since Independence”, smonta pezzo dopo pezzo il mito di Nuova Dehli Paese emergente – La corruzione e l’economia sommersa hanno trasformato il libero mercato in capitalismo clientelare – E intanto la rupia è ai minimi storici e il governo non riesce a superare l’impasse

India, per l’economista Chakravarty il divario uccide la crescita e i mercati non si fidano più

Il Paese delle occasioni perdute, che ha tentato troppe volte di scopiazzare modelli altrui, che ha avuto la sua Waterloo nel 1991 e in cui, soprattutto, di “emergente” c’è solo l’enorme divario sociale. Così l’economista indiano Sukhamoy Chakravarty descrive la sua nazione nel suo ultimo libro “The Indian Economy since Independence: Persisting Colonial Disruption”.

L’India, finora, è stata descritta come un nuovo Eldorado. Assieme a Brasile, Russia e Cina ha vissuto l’esuberante decennio dei Paesi emergenti, le grandi nuove promesse dell’economia mondiale. Eppure oggi il subcontinente, e con essa tante altre nazioni in via di industrializzazione, dopo essere salita sulla cresta dell’onda rischia di finire nuovamente sott’acqua. La sua valuta, la rupia, è al minimo storico e il governo di Nuova Dehli non riesce a porre rimedio al crollo della valuta.

Nessuno si fida più dell’economia indiana, spiega Chakravarty. Una sfiducia dettata innanzitutto dal crollo della rupia rispetto al dollaro, nonostante gli sforzi del governo e della Banca centrale dell’India. L’economista, docente presso il Centro di studi economici dell’Università di Nuova Dehli, fa notare come il tasso di crescita economica sia sempre più basso, mentre l’inflazione aumenta. I mercati ballano pericolosamente, riflettendo l’incertezza degli investitori, locali e stranieri.

L’esecutivo ha provato a rivolgersi ai mercati, ma con scarsi effetti. Il capo di governo e tutti i ministri hanno continuato a ripetere che la ripresa era dietro l’angolo. Ma le promesse sono rimaste solo parole di fronte ai grafici che mostrano un calo inesorabile e continuo del tasso di crescita a partire dal quarto quadrimestre 2010-2011.

In realtà, il tasso di crescita è ancora accettabile se comparato con quello di altri Paesi del mondo. Ma non risulta paragonabile a quello che c’era prima del 1991. Un anno, questo, che per Chakravarty costituisce uno spartiacque per l’economia indiana. Prima, spiega l’economista, la crescita non creava disuguaglianze e disoccupazione. Poi è cambiato tutto.

A partire dal 1991 la crescita è stata alimentata dal settore privato con tecnologie che divoravano capitali ma non creavano impiego, facendo crescere il divario socioeconomico. Ma ci sono altri ingredienti, in questo decollo indiano che rischia di trasformarsi in picchiata, con il tasso di inflazione che aumenta del 10 per cento ogni anno. C’è l’economia sommersa, con la corruzione che divora il Paese. Un sommerso concentrato nelle mani del 2 per cento della popolazione. E le disuguaglianze aumentano.

A 66 anni dall’indipendenza, l’India ha il numero più alto di poveri e analfabeti al mondo. Non che lo stato non abbia fatto progressi, ma questi sono stati molto al di sotto delle aspettative. Inoltre, mentre i consumi pro capite restano bassi, il subcontinente è uno degli ambienti più inquinati al mondo. Le cause, per Chakravarty, sono: a) la strategia della “crescita a tutti i costi” senza tener conto dei costi ambientali; b) la corruzione, in ogni settore economico, che declassa la protezione della natura all’ultimo dei problemi; c) la delocalizzazione delle imprese inquinanti – dallo smantellamento delle navi alle discariche di computer – nei Paesi in via di sviluppo; d) la rapida crescita del consumismo.

Con l’arrivo della globalizzazione, i mercati indiani si sono sempre più integrati a quelli mondiali. Il tasso di esportazioni e importazioni è decollato. I prezzi delle materie prime seguono gli andamenti internazionali. Il risultato è che una crisi del mercato globale porta a una crisi del mercato indiano.

E con la grande crisi, le esportazioni indiane hanno cominciato a soffrire, mentre le importazioni sono rimaste alte a causa della crescente domanda interna. A questo si aggiunge l’alto debito del Paese (365 miliardi di dollari a settembre 2012) in relazione alle riserve (295 miliardi nel gennaio 2013).

Con il rallentamento della crescita dell’economia indiana, la comunità internazionale ha cominciato a perdere fiducia. Le agenzie di rating hanno cominciato a monitorare la situazione a Nuova Dehli. Il governo ha reagito tagliando le spese. Una mossa che, secondo l’economista indiano, “equivale a mordere il naso per curare un raffreddore”.

L’India del 1947 aveva preso in prestito un mix di modelli economici basati sul libero mercato occidentale e sulla pianificazione dello stato centrale di stampo sovietico. Un percorso che ha avuto la sua Waterloo nel 1991, quando la nazione si è aperta totalmente all’economia di mercato, con lo stato in ritirata strategica a favore del settore privato. La mossa, fatta all’interno di un contesto indiano fatto di corruzione e sommerso, ha portato al rafforzamento di un “capitalismo clientelare”, con i privati che ricevono favori e concessioni.

Insomma, per l’economista indiano la prima strategia produceva una crescita più rapida rispetto a quella del periodo coloniale, ma riusciva a tenere sotto controllo le disparità (anche se non le riduceva). Le politiche post 1991, invece, non provavano nemmeno a risolvere l’eterno divario tra caste.

In conclusione, a 66 anni dall’indipendenza, il governo continua su un percorso che porta da una crisi a un’altra. E quello che la mente colonizzata delle elite indiane che dominano il Paese – scrive Chakravarty – pensa sia la soluzione, è in realtà il problema dell’India.

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