Tutto ebbe inizio nel lontano 1975, quando al campione di tutti i tempi, il brasiliano Pelè, furono offerti 4,5 milioni di dollari per andare tre anni negli Stati Uniti a promuovere la sconosciuta North American Soccer League, ossia il calcio nella terra del baseball, del basket e dell’hockey.
Un ambasciatore migliore non lo potevano trovare, i New York Cosmos, visto che Edson Arantes do Nascimento (il suo vero nome) era stato appena cinque anni prima campione del mondo per la terza volta con la sua nazionale, ed è tuttora considerato da molti – in un’eterna diatriba con Maradona (e, ora, con Messi) – il giocatore più forte di sempre.
E infatti, nonostante la sua veneranda età (35 anni, tantissimo per quel periodo!) fu pagato a peso d’oro, in un’epoca in cui, per dare un parametro, un operaio in Italia guadagnava in media 154mila lire al mese.
La perla nera fu dunque il pioniere delle operazioni di calcio-marketing. A seguirlo, poco tempo dopo e sempre nel campionato Usa (che nonostante tanta lussuosa pubblicità non è mai veramente decollato), furono nel 1977 Franz Beckenbauer e Giorgione Chinaglia, che di quel campionato è tuttora il miglior marcatore con 193 gol in 213 partite.
Solo molti anni dopo è giunto in terra d’America il golden boy del calcio, massimo esponente dello sport business: il bell’inglese David Beckham, che dal 2007 sta svernando con i Galaxy, a Los Angeles, proprio a due passi da Hollywood, per la goia della moglie showgirl Victoria e dei tanti produttori cinematografici che non vedono l’ora di riconvertirlo al grande schermo.
Ma tra Pelè e Beckham si sono aperte altre frontiere calcistiche. Anche in quei casi, per dirla tutta, di calcio vero se n’è visto poco, ma se il pallone adesso è seguito e praticato in tutti i continenti è anche grazie, per esempio, a Totò Schillaci, primo giocatore italiano a sbarcare, nel 1994, nel campionato giapponese. L’eroe di Italia ’90 portò a casa cinque miliardi di vecchie lire in meno di due anni, solo per indossare la maglia del Jubilo Iwata e segnare (confidiamo, agevolmente) 56 in 78 partite nella J-League.
Ma come vuole un’operazione commerciale che si rispetti, per un prodotto esportato ce n’è sempre uno importato. E dunque sulla scìa di Schillaci ecco Kazuyoshi Miura, il primo giocatore con gli occhi a mandorla a mettere piede sull’erba di uno stadio europeo. Sempre nel ’94, con la maglia del Genoa. Esperienza fallimentare: va via un anno dopo, e verrà ricordato solo per un gol in un derby, peraltro perso, con la Sampdoria.
Certamente migliori furono le successive performances di Hidetoshi Nakata (sette stagioni in serie A, campione d’Italia con la Roma nel 2001) e adesso di Yuto Nagatomo, terzino titolare dell’Inter. E nel frattempo il Giappone ha ospitato il Mondiale 2002, il suo movimento è cresciuto e la nazionale è attualmente allenata, segno del destino, dall’italiano Alberto Zaccheroni, con ampi margini di crescita in prospettiva Mondiale 2014.
Contemporanemente alla moda nipponica, ma in minor misura, sono tornati in auge anche gli Stati Uniti: quasi 20 anni dopo Pelè, nel ’94 hanno ospitato la Coppa del Mondo (vinta proprio dal Brasile), dando successivamente vita a qualche operazione. Come quella che ha portato l’eccentrico difensore Alexi Lalas a diventare il primo calciatore a stelle strisce del dopoguerra a calcare i campi della serie A, per due stagioni con la maglia del Padova. In “cambio” sono poi andati in America due grandissimi giocatori italiani, che sul finire della loro gloriosa carriera hanno vestito rispettivamente la maglia dei New York Metrostars (’96-97) e dei New England Revolution (’97-99): Roberto Donadoni e Walter Zenga (che poi nel Massachussets ci è rimasto anche come allenatore), aprendo poi la strada ad altri campioni come appunto Beckham o Thierry Henry, tornato ora all’Arsenal.
L’ex portierone dell’Inter ha poi esplorato altre frontiere, diventando ambasciatore del made in Italy in Romania (con le tre squadre di Bucarest), in Serbia (Stella Rossa), in Turchia (Gaziantepspor) e soprattutto nei Paesi arabi, dove anche Donadoni ha dato gli ultimi calci al pallone con la maglia dell’ Al-Ittihad (Arabia Saudita).
Zenga ha allenato l’Al-Ain (Emirati Arabi) nel 2007 e attualmente l’Al-Nasr di Dubai, dove è collega nientemeno che di Diego Armando Maradona, tecnico dell’ Al-Wasl e di Quique Sanchez Flores, quotatissimo ex allenatore del Valencia e anche lui convinto dai favolosi contratti degli sceicchi, i cui petrodollari li hanno portati a diventare proprietari di importanti club europei (Manchester City, Psg, Malaga) e a convincere non solo vecchie glorie del calcio, ma anche giocatori nel pieno della loro carriera, a trasferirsi al confortevole caldo del Golfo Persico. E quindi nell’ Al-Ahli troviamo il cileno ex-Inter Luis Jimenez e l’ex centravanti del Wolfsburg campione di Germania, il brasiliano Grafite, o per esempio, nell’Al-Ain, l’ex Udinese Asamoah Gyan. Ma soprattutto, fino a prima del ritiro di qualche mese fa, il Pallone d’Oro Fabio Cannavaro, anche lui nell’Al-Ahli.
Scelte forti, come quella che ha portato Samuel Eto’o a diventare il giocatore più pagato del mondo (20 milioni di euro netti l’anno) andando ad esplorare gli stadi sperduti della Russia, e rinunciando a una carriera con prospettive ancora più che prestigiose con la maglia dell’Inter (che lo ha visto protagonista del mitico triplete) per indossare quella mai sentita dell’Anzhi. O come quella, fresca di un mese fa, di Nicolas Anelka, campione d’Europa con la Francia nel 2000 ed ex stella di Arsenal, Real Madrid e Chelsea: da gennaio è il primo giocatore di alto livello a sbarcare nella Chinese Super League con lo Shanghai Shenhua, per 11 milioni l’anno.
E la prossima frontiera? L’India. Il nastro lo sta per tagliare proprio Cannavaro, che in teoria avrebbe appeso l’ultimo scarpino nello spogliatoio dell’Al-Ahli, ma che di fronte all’ultima offerta sta per rimettersi i panni, a lui congeniti, dell’ambasciatore del calcio e dell’Italia.
E’ la Premier League indiana, primo campionato di calcio in un Paese dove praticamente non esiste (numero 158 del ranking Fifa). Una scommessa incredibile, e ovviamente ben pagata (si parla di circa un milione di dollari per tre mesi), che vedrà in campo non solo Cannavaro ma anche altri campioni come Crespo, Morientes, Fowler, Pires e Okocha. Praticamente uno per squadra, visto che a partecipare al torneo, da febbraio ad aprile, saranno solo sei club, tutti della regione del West Bengala, intorno all’ex Calcutta, al confine col Bangladesh. E, secondo la formula stessa, si spartiranno una star ciascuno, con un budget di 2,5 milioni per squadra.
L’obiettivo calcistico (ambizioso) è quello di portare l’India ai Mondiali del 2022. Quello più immediato (realistico) è, parola degli organizzatori, di “riempire gli stadi, creare una nuova demografia del pallone e raggiungere i tifosi attraverso la tv”.
Un po’ come con Pelè, quasi quarant’anni fa. E non stupiamoci se l’anno prossimo, su qualche campo europeo, arriverà il nuovo fenomeno di New Dehli. Un Cristiano Ronaldo in salsa curry. Con la benedizione di Cannavaro.