Dopo due indagini governative redatte dall’ing Caio (una del 2009, governo Berlusconi, e una del 2014, governo Letta), tre indagini di Infratel (2010, 2012, 2014), due indagini conoscitive del Parlamento, si è conclusa anche l’indagine congiunta AGCom-AGCM, avviata lo scorso gennaio, sulle reti di telecomunicazioni a banda larga e ultralarga.
Le due Autorità, che hanno lavorato congiuntamente molti mesi e sentito tutti gli operatori del mercato, hanno rilevato che, nelle scelte di sviluppo infrastrutturale, l’Italia è caratterizzata da una dinamica in cui Telecom Italia detta ancora lo sviluppo delle reti e i principali operatori alternativi (Fastweb, Vodafone, Wind) tendono a utilizzare la rete dell’incumbent e forniscono servizi nelle medesime aree di mercato, piuttosto che adottare soluzioni tecnologiche alternative e indirizzare nuovi mercati. Infatti, dai piani di investimento in nuove reti a banda ultra larga, presentati dagli operatori nel corso dell’indagine, si stima che la vera concorrenza infrastrutturale riguarderà solo un’area corrispondente a circa il 25% della popolazione.
L’indagine ipotizza che sia soprattutto la debolezza della domanda, limitata alle principali aree urbane, il principale fattore di rischio che incide sullo sviluppo di nuove infrastrutture che implicano notevoli investimenti e costi irrecuperabili. Tale problema è particolarmente accentuato nel nostro Paese, dove i livelli di alfabetizzazione informatica e di utilizzo di Internet sono molto più bassi rispetto alla media UE.
Le due Autorità auspicano, dal punto di vista tecnologico, uno sviluppo graduale delle reti in fibra, ipotizzando che gli operatori debbano prima sviluppare reti FTTC e solo successivamente reti FTTH/B (appunto quando l’evoluzione della domanda lo richiederà). Tuttavia evidenziano che, essendo limitata la “scalabilità” verso reti FTTH/B, la soluzione FTTC scelta da Telecom Italia non sia sufficiente ad assicurare gli obiettivi dell’Agenda Digitale Europea, in particolare l’obiettivo di fornire una connettività con una velocità di 100 Mbps entro il 2020 al 50% della popolazione. In merito alle riflessioni sulla struttura del mercato, sono ipotizzati tre scenari per sostenere il progetto di sviluppo di reti FTTB/H, differenziati in relazione alla diversa proprietà della rete ed alla relativa governance:
1) Operatore di rete non verticalmente integrato
2) Operatore dominante verticalmente integrato (Telecom Italia)
3) Joint venture tra più operatori
Il primo scenario, con un operatore di rete che non offre servizi direttamente ai clienti ma dà accesso all’ingrosso in modo neutrale (sul modello Metroweb per esempio), viene ritenuto critico e non realizzabile su ampia scala poiché necessita di una forte domanda di servizi all’ingrosso che non viene riscontrata allo stato attuale del mercato.
Il secondo modello con lo sviluppo della rete FTTH/B da parte di Telecom Italia è ritenuto il più restrittivo della concorrenza, soprattutto nell’ipotesi di acquisizione di Metroweb da parte di Telecom Italia.
Il terzo scenario (ovvero forme di co-investimento anche attraverso la costituzione di una joint venture per lo sviluppo e la gestione della rete FTTH/B) è ritenuto lo strumento più adatto a stimolare lo sviluppo di reti FTTH/B in una parte più estesa del territorio nazionale e di accelerare i processi di investimento nelle reti di nuova generazione.
L’indagine evidenzia poi due ambiti abilitanti:
– le politiche di sostegno indiretto degli investimenti (riduzione dei costi amministrativi e l’incentivazione della domanda, sotto forma di voucher, sovvenzioni, benefici fiscali per le imprese e/o famiglie);
– la necessità di una maggiore attività strategica di coordinamento e di controllo pubblico del processo tra i diversi decisori coinvolti (Infratel, Mise, AgID, etc.) specie per le aree a fallimento di mercato, dato il limitato livello di avanzamento dei lavori rispetto a quanto pianificato dal Governo.
Le due Autorità hanno certamente fatto un’utile analisi, ma non si può non riscontrare che hanno mostrato un limite molto grave: esse non si posizionano come attori del mercato, ma bensì fuori dal mercato che sono chiamate a regolare e assicurare, rinunciando così a parte delle prerogative che vengono date loro dalle reciproche leggi istitutive. Un testo da accademia non da Regolatori e Garanti.
Infatti ci saremmo aspettati, soprattutto in una logica di valutazione di un mercato in concorrenza dinamica, che più di una parola fosse spesa sul problema centrale, ovvero il fatto che l’attuale regolamentazione di settore (AGCom) e gli strumenti di enforcement delle norme a tutela della concorrenza (AGCM) si sono dimostrate inadatte allo sviluppo della banda ultra larga e alla gestione della discontinuità tecnologica.
In relazione alla regolamentazione di settore attualmente vigente, si consideri che il listino di accesso NGN è in vigore dal 2012 e nessuno degli operatori pare avere per questo modificato le proprie strategie di copertura e fornitura del servizio anzi semmai il contrario: tutti gli operatori offrono servizi nelle stesse aree e con la stessa tecnologia.
In relazione alle attività di garanzia della concorrenza, l’AGCM ha applicato, per esempio, la normativa in materia di Aiuti di Stato di fatto annullando i progetti di sviluppo di alcune regioni italiane (si pensi al caso della Provincia di Trento), quando la normativa comunitaria introdotta da lì a poco avrebbe consentito tali interventi (GBER II).
La regolamentazione del settore delle telecomunicazioni risulta, quindi, “datata” e non in grado di stimolare gli investimenti degli operatori privati. Ci si aspetta che le Autorità di regolazione e di garanzia del settore siano in grado di creare le giuste condizioni di mercato per l’intervento dei privati nel settore, anche attraverso un maggior presidio presso le Istituzioni europee.
Vi è poi un profilo meno grave (perché recuperabile), ma molto importante: la conoscenza tecnologica mostrata è limitata, ma soprattutto poco lungimirante. Infatti chiunque abbia lavorato sul territorio con le imprese e la pubblica amministrazione sa che per uno sviluppo capillare dei servizi a banda larga ed ultralarga è necessario l’utilizzo di un adeguato mix di tecnologie. Da non trascurare poi, il fatto che le due Autorità sembrano, in un certo senso, avere derogato al principio di neutralità tecnologica per sposare la scelta della fibra a discapito di tutte le altre opzioni disponibili già oggi.
Scarsissimo rilievo viene dato al contributo di altre tecnologie, diverse dalle reti in fibra, per il raggiungimento degli obiettivi dell’agenda digitale: per es. solo una breve menzione della possibilità offerta dalle tecnologie fixed wireless di raggiungere gli obiettivi dell’Agenda Digitale Europea. Sotto questo profilo, le azioni poste in essere da altre Autorità di settore appaiono molto più lungimiranti e atte a creare realmente le condizioni regolamentari favorevoli allo sviluppo dei servizi.
Un esempio tra i tanti è quello della Federal Communications Commission (FCC) degli USA, da sempre alla ricerca di policy innovative per una gestione più flessibile e meno “burocratica” delle spettro radio (fattore produttivo centrale per permettere lo sviluppo di tecnologie wireless): si veda a tal riguardo, il procedimento avviato lo scorso aprile che individua per la banda a 3,5GHz (estremamente adatta allo sviluppo della banda larga wireless fissa) un modello di assegnazione dei diritti d’uso estremamente innovato e flessibile (basato su tre diversi livelli gerarchici ed un meccanismo di auto-coordinamento degli attori in gioco).
In conclusione, dunque, seppure rappresenti un lodevole tentativo dell’AGCom ed AGCM di arricchire il dibattito attorno allo sviluppo dei servizi a banda larga ed ultralarga, l’indagine congiunta appare più concentrata su riflessioni accademiche e su leve che restano al di fuori delle competenze specifiche delle due Autorità (quasi un tentativo di rimandare la palla dall’altra parte); Authorities che sono sembrate poco attente, invece, ad interrogarsi su quali strumenti oggi e subito essere possono mettere in campo.