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In ricordo di Gianni Toniolo, economista illuminato e di forte impegno civile: la fuga dei giovani talenti era il suo cruccio

Economista di fama internazionale, europeista straconvinto e cittadino del mondo, Gianni Toniolo era legatissimo a Venezia, dove aveva le sue radici – Lo angustiava il futuro dell’Italia e soprattutto la fuga di tanti giovani talenti

In ricordo di Gianni Toniolo, economista illuminato e di forte impegno civile: la fuga dei giovani talenti era il suo cruccio

«Hai appena detto una cazzata!». Sarà stato per il tono della voce, sempre molto pacato, o per la cadenza veneziana con leggero rotacismo, da non confondere con la veneta, o per la saggezza, accumulata in una vita di studio e di insegnamento, o per l’insieme di queste e altre ragioni, fatto sta che, perfino le rare volte che adoperava termini così forti, Gianni Toniolo, economista illuminato scomparso qualche settimana fa, era comunque molto elegante.

Pure nel portamento, eretto e fiero, e nello sguardo, luminoso e sorridente, ricordava un patrizio, di quelli che fecero grande la Serenissima nei secoli precedenti la scoperta dell’America e l’apertura della rotta alle Indie orientali mediante la circumnavigazione dell’Africa. Scoperta e apertura che segneranno l’inizio del declino della Repubblica oligarchica. D’altronde, da quella città sospesa tra acqua e cielo (che perfino le nubi sembrano omaggiare, abbassandosi all’orizzonte), Toniolo proveniva, vi aveva studiato e insegnato, da ottimo cafoscarino.

GIANNI TONIOLO: EUROPEISTA CONVINTO E CITTADINO DEL MONDO MA CON UN GRANDE AMORE PER VENEZIA

Era la sua casa (nel senso di home) e vi tornava quando poteva, lui europeista straconvinto e cittadino del Mondo. Anche se era ben cosciente di alcuni gravi limiti di quella piccola patria. Uno soprattutto: la scarsa considerazione che gli imprenditori veneti avevano dimostrato verso lo studio universitario.

Più volte mi rammentò che i suoi laureati con il massimo dei voti non venivano assunti dalle aziende, che preferivano gli studenti mediocri. E le famiglie imprenditoriali più facilmente lasciavano studiare le ragazze, mentre i ragazzi erano inseriti rapidamente ad affiancare il padre.

Ecco, questo era un suo cruccio. E come dargli torto? Specie alla luce della scelta di molti giovani talenti italiani di andare all’estero a cercare miglior fortuna. Va detto che nessuna regione del Paese è immune da tale “fuga”. E bisogna aggiungere che qualcosa sta cambiando, almeno in termini di presa di coscienza. Eppur si muove, avrebbe detto Galileo. Però ancora lentamente.

Per Venezia Toniolo aveva fatto molto. Per esempio, in cooperazione con la Duke University, dove insegnava, aveva fondato la Venice International University, di cui era stato il primo direttore. Sovrintendendo ai lavori di restauro degli storici edifici sull’Isola di San Servolo, e coagulando le risorse di Duke, dell’Università di Architettura di Venezia (la IUAV), della Ludwig Maximilians-Universität di Monaco di Baviera e della Universitat Autònoma de Barcelona, della Fondazione Cassa di Risparmio di Venezia (ora Fondazione di Venezia) e della Provincia di Venezia (ora Città Metropolitana di Venezia).

Gianni spesso faceva riferimento all’epoca dal XVI secolo in poi (essendo stata la vittoria a Lepanto, nel 1571, il canto del cigno del dominio veneziano sul mare che sta in mezzo alle terre) per raccontare il sottile crinale che divide una società in sviluppo da una che si adagia sulle conquiste realizzate, o comunque non riesce più a mantenere la barra dritta verso la crescita. E riteneva che, accanto agli indubitabilmente importanti fattori esterni sopra menzionati, che spostarono definitivamente verso occidente il baricentro dei commerci, ci fossero anche cause interne. Individuava in Alvise Da Mosto uno degli ultimi mercanti esploratori, capace di rischiare (anche la vita, dati i tempi, i mezzi di trasporto e i luoghi), perché spinto da quei moti dell’animo imprenditoriali (gli animal spirits keynesiani) che si sarebbero vieppiù spenti nelle inebrianti e lunghe feste veneziane, con il Carnevale che durava sei mesi e i nobili che facevano a gara per organizzare feste licenziose nei palazzi cittadini e in villa.

Similmente, con il decadimento delle grandi imprese, l’Italia ha oltrepassato quel crinale nei primi vent’anni del nuovo millennio, quando la sua crescita si è fermata, mentre quella dei suoi pari europei è proseguita. Si è così scavato un solco profondo nei redditi per abitante, che si traduce in forte differenza nella qualità della vita, differenza che attrae altrove i migliori giovani italiani. Mettendo in moto un circolo vizioso tra bassa crescita-depauperamento del capitale umano-bassa crescita.

I venti mesi del Governo Draghi hanno interrotto l’ampliarsi di tale divario, e anzi lo hanno non poco ridotto, e anche perciò il testimone preso dal Governo Meloni è assai impegnativo. Tanto più che il declino italiano affonda le radici in un’epoca precedente, alla fine degli anni 60 del secolo scorso, quando il miracoloso sviluppo economico post-bellico non era stato accompagnato da un equivalente ammodernamento delle istituzioni, di ogni tipo e genere.

Ma che «cazzata» avevo mai detto? Non riguardava affatto la teoria o le statistiche o la storia economica. Su questi aspetti Toniolo, economista di fama internazionale e profondo studioso delle vicende storiche dei sistemi economici avanzati, soprattutto dell’Italia, difficilmente avrebbe espresso un giudizio tanto severo quanto drastico. Perché era estremamente liberale e, sul piano dell’appartenenza alle scuole di pensiero, fondamentalmente “ateo”, preferendo i risultati solidi della ricerca agli schieramenti ideologici. Perciò, quando era in disaccordo, si limitava a guardarti con gli occhi chiari, magari un po’ di traverso, e diceva «non ne sono convinto, sai» o «non la penso così» o, quando proprio voleva tagliar corto, «insomma, le cose stanno cosà». E allora, quale insulsaggine avevo proferito?

GIANNI TONIOLO: “VORRESTI VEDERMI CON I VECCHIETTI SULLA PANCHINA DEL PARCO?

Era il settembre del 2021 e gli avevo telefonato per chiedergli di partecipare a un evento presso un’associazione imprenditoriale, e mi aveva fatto un lungo elenco di importanti impegni lavorativi, tra i quali spiccavano il completamento delle storie della Bundesbank e della Banca d’Italia. Sentendolo un po’ angosciato per le scadenze e il dover tener dietro a tante e tali opere, mi ero permesso di suggerire che, raggiunta una certa età, bisognerebbe lasciare un po’ andare l’usato travaglio e aver più tempo per altri aspetti della vita. Eccola, dunque, la «cazzata» dal mio sen sfuggita. «Vorresti vedermi con i vecchietti seduti sulla panchina al parco», rincarò un po’ stizzito alla mia richiesta di spiegazione. No Gianni, replicai, solo non vorrei tu fossi tanto in affanno.

Il fatto è che Toniolo era animato da quella voglia di fare che è caratteristica non solo dei bravi imprenditori ma anche dei grandi intellettuali. Per lui, quindi, era inconcepibile non cogliere una nuova opportunità di lavoro, se appena ne intravedesse un aspetto intrigante. Era estremamente generoso nel rispondere alle richieste: non ricordo di una volta che abbia negato il suo contributo, fosse un articolo per Il Sole 24 Ore, per il quale non aveva mai smesso di scrivere, nonostante le alterne vicende della testata, o un capitolo di un volume sull’economia italiana.

Semmai si stupiva se lo raggiungevo al telefono solo per salutarlo e avere sue notizie, come era accaduto la scorsa estate. «Siamo qui nella nostra bella Sardegna, lavoriamo e stiamo bene. Perché mi chiami?». Per salutarti, gli risposi. Si riferiva alla casa avita della moglie, Francesca Sanna Randaccio, situata in un borgo interno sul lato occidentale della magnifica isola. 

Il costante impegno civile di Gianni si esprimeva non solo con la sua professione di formatore di classe dirigente, essendo professore universitario (lo era stato anche negli USA, in UK e in Giappone), ma anche firmando gli appelli che i suoi colleghi economisti, o lui stesso, promuovevano per o contro qualche provvedimento sull’università, sulla ricerca, sulla politica di bilancio in generale.

Era molto preoccupato per il futuro del Paese e per la scarsità di giovani, con cui amava stare e che voleva far parlare, per ascoltare la loro visione della vita. Accadde anche al convegno in onore di Stefano Micossi, che insieme avevamo ideato e organizzato il 9 settembre.

Riconosceva subito il talento di uno studente. Qualche anno fa lo misi in contatto con un ex compagno di scuola e caro amico di mio figlio secondogenito, e ne soppesò rapidamente la stoffa, tanto da sottoporgli le bozze della prima parte della Storia della Banca d’Italia. L’ultima sua fatica.

Rimpiango di non aver potuto, per un altro impegno lavorativo, essere presente alla sua presentazione, il 18 ottobre scorso. Lo chiamai una decina di giorni dopo, e mi rispose con una voce debole, che mi preoccupò e di cui gli chiesi l’origine, ma mi tranquillizzò dicendo che era dovuta a una brutta influenza da cui era da poco guarito. «Sto bene, sono qui con gli amici della Banca d’Italia e domani riparto per Venezia; ci vediamo presto», mi rassicurò. Nessuno dei due sospettava che sarebbe stato il saluto ultimo. Tuttora una fitta di dolore si insinua nella mia mente quando penso di mandargli un saluto, una foto, un video e rammento che non è più.

La riconoscenza verso Gianni, amico e maestro, si manifesterà  nel moltiplicare l’impegno per arrestare la fuga di giovani dal Bel Paese e fare dell’Italia un bosco fitto di «piante novelle rinnovellate di novella fronda».

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