Tra poco più di un mese sapremo chi sarà il prossimo presidente di Confindustria. Dopo aver letto questa frase di inizio, certamente molti intoneranno il ritornello di una famosa e strafottente canzone popolare romana (per chi non l’avesse indovinata, googolare La società dei magnaccioni).
Ma è una reazione profondamente sbagliata. Per una molteplicità di ragioni, di cui due sopra tutte. Prima: in un Paese dove gli imprenditori e l’industria non godono di grande popolarità e rispetto (diversamente da quel che accade in Germania e Stati Uniti, per esempio), Confindustria difende validamente il buon nome e i valori degli uni e dell’altra, a vantaggio dell’intera Italia. La quale, senza imprese e senza industria, avrebbe ancora un’economia agricola (NON bucolica) e sarebbe assai povera.
La seconda ragione è che, nel bene o nel male, volenti o nolenti, Confindustria ha un notevole potere politico, proprio in virtù della rappresentanza che a essa è affidata da una parte ampia e variegata del mondo produttivo. Sul sito di Viale dell’Astronomia si legge che le imprese associate generano un valore aggiunto pari al 34% del PIL e danno lavoro a 5,4 milioni di persone (per favore: eliminate l’asettico e fuorviante termine «addetti»!).
Per questi due motivi l’elezione del presidente di Confindustria interessa tutti i cittadini italiani. Da chi sarà lei o lui dipende se la giusta causa dello sviluppo italiano sarà in buone mani, almeno dal lato confindustriale; un lato che non è certamente tutto ma è molto più di quel che comunemente si pensi. Da una buona presidenza può venire del bene a tutto il Paese; mentre una cattiva può causare danni duraturi.
In lizza ci sono tre candidati. In rigoroso ordine alfabetico: il milanese Carlo Bonomi, presidente in carica di Assolombarda, che è la principale associazione territoriale aderente a Confindustria; la torinese Licia Mattioli, vicepresidente di Confindustria nazionale con delega per l’internazionalizzazione; e il bresciano Giuseppe Pasini, presidente della Aib (Associazione industriale bresciana). Ma la vera sfida è tra i primi due.
Cosa si può dire di loro? Anzitutto, Mattioli si presenta come continuità con l’attuale presidenza Boccia. Sia perché è parte della sua squadra (essendo stata grande elettrice di Boccia stesso nel 2016) sia per come Confindustria l’appoggia. Non è necessario saper leggere i messaggi subliminali per capire che organizzare la celebrazione dei 110 anni dell’aquilotto a Torino è stato un modo per lanciarle la volata. Tanto più che 110 anni non sono solitamente un traguardo da festeggiare.
All’opposto, Bonomi incarna la discontinuità rispetto a questa presidenza e alla sua gestione, anche delle controllate, ossia l’università LUISS e il quotidiano Il Sole 24 Ore.
In altre parole, se gli imprenditori fossero contenti di Confindustria così come è dovrebbero votare Mattioli. Se, invece, fossero insoddisfatti, dovrebbero eleggere Bonomi. Se esistesse il mugugnometro, il suo mercurio avrebbe già fatto saltare il tubicino di vetro e ci sarebbero pochi dubbi circa l’esito delle elezioni. Ovviamente, però, non è solo questo il fattore che decide il risultato. Contano anche i programmi e la capacità di persuadere i colleghi, ossia di fare campagna elettorale.
Anche riguardo a quest’ultima i due candidati non potrebbero comportarsi più diversamente. Mattioli ha scelto la televisione, partecipando a talk show, social network e interviste sui quotidiani nazionali. Dove ha dato ulteriore prova delle sue doti di eloquio e della sua determinazione. Bonomi utilizza un profilo decisamente più istituzionale e meno urlato.
Questione di gusti e di stile, si dirà. Ma anche di rispetto delle norme: stando a una gola profonda, le regole di “ingaggio”, stabilite dai saggi incaricati di consultare la base associativa, avevano esplicitamente vietato uscite pubbliche. Sia Mattioli sia Pasini le hanno salvinianamente violate. Non è un buon viatico per chi punta a guidare la maggiore associazione imprenditoriale di un Paese che ha un bisogno disperato di rispettare leggi e regolamenti (a cominciare da quelle fiscali e contributive); se non si è in grado di stare dentro nemmeno a quelle che gli imprenditori stessi si sono dati…
Farsi un’idea dei programmi è meno semplice. Da un lato, quello di Mattioli non può certo essere sintetizzato negli slogan lanciati sui media. Slogan che dicono cose non proprio nuove: rivoluzionare il Paese partendo dalle imprese; i posti di lavoro non si creano per legge (vero, ma le leggi fanno molto per la qualità del lavoro e dell’impresa e quindi per il progresso sociale).
Dall’altro, il manifesto di Bonomi è ancora meno conoscibile, dato che ha deciso di non comunicarlo al più grande pubblico. Tuttavia, il suo discorso all’ultima assemblea pubblica di Assolombarda, che si è tenuta alla Scala di Milano lo scorso 3 ottobre (la vigilia di San Francesco), fa capire il senso ultimo della sua proposta. A cominciare dal titolo: L’impresa di servire l’Italia. Che suona assai lontano da quanto propagandato da Mattioli.
Alcune pagine di quel discorso sono dedicate al richiamo, di fronte al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, dei principi del vivere civile e della solidarietà. Ricordando la strage del 3 ottobre 2013 (sei anni esatti prima) di 368 persone, morte affogate per il rovesciamento di un barcone al largo di Lampedusa; venti furono i dispersi.
Per comprendere l’immane tragedia della migrazione, suggeriamo caldamente, soprattutto a chi non l’avesse ancora visto: Come il peso dell’acqua. La sua visione andrebbe addirittura prescritta come terapia sanitaria obbligatoria a tutti i leader affetti da sovranismo, tenendone gli occhi aperti con apposite molle, come in Arancia meccanica.
La solidarietà e il vivere civile ambrosiani furono quelli che, nella seconda metà del 1400, spinsero il Duca di Milano, Francesco Sforza, a costruire un grande ospedale (la Ca’ Granda). Il primo al mondo con impronta e concezione moderne per l’attenzione al malato e le cure mediche. Concepito per i poveri, che non potevano permettersi visite e terapie e che potevano così godere di un accudimento nemmeno immaginabile nella loro magrissima esistenza: dai pasti più volte al giorno al cambio frequente delle lenzuola e della biancheria, dalla refrigerazione d’estate al riscaldamento d’inverno all’acqua corrente. Si narra che alcuni miserabili si ferissero apposta pur di essere ricoverati e godere di tali comodità, rischiando la vita in un’epoca di alta mortalità da infezioni.
Anche a Torino ci sono fulgidi esempi di attenzione ai bisognosi. Come i santi sociali dell’Ottocento, primo tra tutti Don Giovanni Bosco. Mattioli potrebbe trarne utile ispirazione, ma forse non è nelle sue corde. Eppure proprio del loro messaggio e della loro opera c’è tanto bisogno in un’Italia così lacerata e impoverita.
In ogni caso, all’una e all’altro suggeriamo di leggere con attenzione, per l’analisi e le prescizioni. il recentissimo e-book di Paolo Sestito e Roberto Torrini: Molto rumore per nulla: La parabola dell’Italia, tra riforme abortite e ristagno economico. In testa al decalogo delle cose da fare c’è l’istruzione.
Il 26 marzo, giorno in cui il Consiglio generale designerà, a suon di voti nell’urna, il prossimo presidente di Confindustria, sapremo se il gotha dell’industria italiana sceglierà la conservazione o il rinnovamento. Noi non avremmo esitazioni.
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grazie dell'articolo interessante. Indubbiamente, Confindustria è un patrimonio per la democrazia italiana, forte del più grande emeglio finanziato gruppo editoriale italiano che, occpuando il 30% del suo bilancio con circa 10.000 "addetti", è oggetto dal 2019 di un piano di tagli e licenziamenti, del quale poco o nulla si parla.
Veniamo al nodo Masosneria. Confindustria dagli anni '30 ha attraversato due guerre mondiali e il rinascimento repubblicano senza mai ambiare simbolo: l'aquila.
Veniamo ai candidati. Bono,i porta il cognome di quel Paolo che -caso unico insieme ad Orlando- fu espulso dai padri costituenti a causa delle sue affiliazioni masosniche. Mattuoli invece suona come questo vecchi articol odi Repubblica http://archive.is/qYSUn.
Per non incorrere in pedanti denunce per diffazione. devo dire che si tratta di un potenziale caso di omIonimia, lasciando a ciascuno la libertà in coscienza di giudicare se la risposta debba essere affermativa (oppure no).
Non è un pericolo avere dei probabili (quasi certi) massoni di 33° grado alla guida della regione che è la locomotiva dell'economia italiana e nella quale si dirige il riciclaggio della mafia nostrana.
Con il rispetto per i programmi INESISTENTI, diviene evidente che non c'è una visione un programma per il futuro.
Per questo ho deciso di puntare lavorativamente sul Veneto. Consiglio anche a quanti sono allevati dai media col mito di Milano, di valutre attentamente città vivibili come Venezia e la possibilità di rearsi un'attività in proprio inziando a progettarsela fin dal primo anno di università.
Si tratta di un lusso che ai nomadi del treno e degli stanzoni milanesi non è più nemmeno concesso pensare.
Auguri per il futuro di tutti lombardi, e di tutti i veneti come me.