Il primo luglio è stato presentato in streaming il Rapporto sulle imprese pubbliche italiane della Commissione Imprese e Sviluppo (Fabrizio Barca, Giovanni Dosi, Simone Gasperin, Federico Maria Mucciarelli, Edoardo Reviglio, Andrea Roventini, Francesco Vella, Edoardo Zanchini) costituita nell’ambito del Forum Disuguaglianze e Diversità.
Non voglio nascondere il mio quasi totale dissenso in merito all’analisi e alla proposta operativa che ne consegue.
Nel Rapporto si parla di “missione” per l’impresa controllata dallo Stato e di un sistema che non raggiunge a pieno le sue possibilità “per una carenza di interazione di un agire sistemico e coordinato fra le stesse imprese pubbliche”.
Ora, il termine “missione” può essere adeguato per un’impresa in un’economia di guerra, e neanche in tutti i paesi.
Prendiamo il caso della Germania nella prima guerra mondiale, Walther Rathenau poté organizzare una formidabile macchina da guerra fatta di imprese che avevano missioni strategiche; Rathenau poté perseguire uno sforzo del genere, avendo alle spalle un paese in cui erano chiarissimi i valori e le gerarchie e, diciamolo pure, una schiacciante egemonia da parte di una classe dirigente fatta da baroni veri, gli Junker, e baroni dell’acciaio, i Krupp e i Thyssen.
In Italia, ad esempio, nello stesso periodo, un sistema di questo tipo non poteva funzionare, perché non c’era lo stesso assetto di valori, di ideali.
Lo sapeva bene il “Rathenau italiano”, il generale Alfredo Dallolio, che riuscì a creare un efficace apparato bellico concedendo agli industriali privilegi vergognosi.
Mi scuso per questa digressione da vecchio professore di storia.
Veniamo ai nostri giorni. Decenni di studi e la conoscenza di centinaia di storie d’impresa mi hanno convinto che l’unica “missione” che si può attribuire a una grande azienda sia quella di competere sul mercato, migliorando continuamente le funzioni dell’azienda stessa, la produzione, il marketing, la finanza, la ricerca&sviluppo, la logistica, la valorizzazione delle risorse umane, che un tempo si chiamava “personale”.
È altresì necessario affinare le capacità strategiche, ritirarsi tempestivamente da un mercato ormai saturo, aggredirne uno nuovo e anche tener presente che se diversificare le produzioni è un vincolo imperativo, è necessario materializzare questo input solo se si è in grado – tecnologicamente e organizzativamente – di padroneggiare questo processo.
Sono lezioni della storia che difficilmente possono essere eluse.
D’altro canto, non ha senso la sistematica interazione fra le imprese controllate dallo stato. Chi parlava di “integrazione” fra le imprese era Giuseppe Petrilli, il “per nulla rimpianto” presidente dell’IRI (da lui definito “un gruppo polisettoriale integrato”).
Ma poteva farlo perché i suoi ghost writers non conoscevano Oliver Williamson, che pubblicò la bibbia del make or buy, Markets and Hierarchies, solo nel 1975. Oggi, però, è un testo conosciuto da tutti.
Di “missioni”, in un certo senso, parlava poi Pasquale Saraceno, quando sosteneva, nel suo aureo libretto Il sistema delle Partecipazioni Statali in Italia, il criterio dell'”economicità”, che nella sua accezione significava mettere insieme massimizzazione del profitto e obiettivi politico-sociali.
Certo, è la quadratura del cerchio, chi non ci starebbe? Peccato che non abbia funzionato, peccato che l’IRI, seguendo questa filosofia, si sia ritrovato, nel 1992, con debiti per 40 miliardi di euro.
Sono d’accordo con il Rapporto, quando si afferma che lo stato controlla oggi in Italia fior di imprese, ma perché non lasciarle in pace, le imprese? Perché non lasciare che perseguano le loro strategie, tenendo conto dei loro orizzonti temporali?
Perché non fare come i keiretsu giapponesi, gruppi formati da aziende di settori non correlati, anzi, completamente diversi, i cui capi si incontravano ogni terzo giovedì del mese in un esclusivo albergo di Tokyo, bevevano tè, si facevano i reciproci inchini, e si scambiavano informazioni?
Da questi incontri, a volte, scaturivano grandi affari, ad esempio il settore petrolchimico giapponese nacque e si sviluppò così – nessuno sarebbe stato in grado da solo di sostenere un peso del genere -, ma non sempre si combinavano questi affari, non era certo obbligatorio, dipendeva dalla convenienza economica.
E, allora, ci si potrebbe chiedere, dove sta il gruppo? Il gruppo stava nelle partecipazioni incrociate che rendevano stabile il management, nell’aiuto reciproco – in termini finanziari o di trasferimento di personale – che i componenti del gruppo si davano nei momenti di crisi.
Il gruppo era nella main bank, che possedeva il 10% di tutte le maggiori imprese, costituendo un ulteriore elemento di stabilità.
Un’ipotesi su cui lavorare potrebbe essere lo “spacchettamento” della Cassa Depositi e Prestiti: una metà può agire da main bank/holding, che eserciti un blando coordinamento fra queste imprese controllate dallo Stato, e dia sicurezza al management, mentre l’altra metà può dedicarsi al suo compito storico, magari modernizzandolo, costruendo infrastrutture materiali e immateriali.
Da quanto detto sino a ora, sembra assolutamente cruciale la scelta del management, quello che Beneduce definiva “le mani adatte”.
Su questo nodo è necessario concentrarsi e capire con quali meccanismi deve avvenire la scelta dei CEO o dei CFO. Purtroppo non ho ricette, so solo che devono essere indipendenti dalla politica, non amici degli amici, né risultare “trasparenti”, come negli anni Ottanta.
Dicevo che non ho ricette, ma la proposta dei quindici esperti non mi convince affatto. Nella situazione attuale, con grande probabilità, sarebbero tutti lottizzati e ben pagati per fare quello che vuole “il padrone”.
Io vedrei bene i dirigenti del ministero dell’Economia farsi protagonisti come ai tempi in cui Draghi era il direttore generale del Tesoro, e aveva accanto a lui i Giavazzi, i Giovannini, i Faini, i Grilli.
Prevedo poi un altro soggetto, che spero meno presente possibile: sono le imprese nazionalizzate, quelle che vogliamo avere whatever it takes, l’Alitalia, l’Ilva; queste sono più agenzie che aziende, in quanto sottratte al mercato, condotte mediante un sistema di prezzi amministrati.
Questa nuova presenza, che sembra inevitabile, dovrebbe essere condotta da civil servants di prim’ordine, tipo i francesi dell’Ena.
Torniamo ora alle imprese eccellenti controllate dallo Stato. La formula della partecipazione statale, ma con un ampio azionariato privato, sembra la migliore, quella che più ha funzionato con l’IRI.
Le imprese che abbiamo definito SOEs operano però sul mercato, il quale, come è noto, è cinico e baro. Insomma, dobbiamo concedere a queste imprese una libertà fondamentale nel capitalismo, quella di fallire.
Non dobbiamo avere paura dei fallimenti. Ricordiamo che Henry Ford, prima di essere “lui”, quello del modello T, aveva fatto due volte bancarotta.
Ma nel frattempo, lasceremo a piedi i lavoratori di ogni ordine e grado vittime del fallimento? No! Siamo ancora figli della rivoluzione francese: libertà di pensiero, uguaglianza di fronte alla legge, fraternità per ciò che concerne l’economia.
Dobbiamo difenderli, questi lavoratori, non difendere il loro posto di lavoro; io vedo quindi una grande agenzia che “ri-formi” queste persone rimaste senza impiego, che dia a esse nuove capacità sulla base della loro storia e delle loro esigenze e poi metta sistematicamente in contatto la domanda con l’offerta di lavoro.
Mi rendo conto che sto evocando immagini poco rassicuranti, ma non vedo altre strade; è necessario insistere, così che chi ha perso un posto di lavoro possa reinserirsi in un’attività dignitosa e magari più ricca di soddisfazione delle precedenti.
Per concludere: ministero dell’Economia, Cassa Depositi e Prestiti, imprese eccellenti controllate dallo stato, imprese nazionalizzate, agenzia imprenditoriale del lavoro mi sembrano far parte di un sistema ben congegnato, nel quale gli attori esistono quasi tutti.
Diamogli vita ed esclamiamo, all’attimo presente: Verweile doch, du bist so schön (fermati, sei così bello)