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Immigrazione, una valanga che sconvolge l’Europa e che reclama una politica

L’estate 2015 sarà stata quella delle emergenze e dei drammi per l’Europa. Non hanno tenuto banco solo la crisi finanziaria e il caso Grecia, ma a preoccupare alcuni degli Stati membri e l’intera comunità è stata l’emergenza umanitaria legata all’immigrazione. Ne sa qualcosa in particolare l’Italia, che, quando mancano ancora quattro mesi alla fine dell’anno, viaggia già oltre i 100mila sbarchi (erano stati 171mila nel 2014): nonostante le difficoltà giuridiche e i tragici aspetti legati alle morti in mare e al dramma umano dei migranti, le forze dell’ordine sono comunque riuscite a identificare quasi 20mila persone e a rimpatriarne – al 31 luglio – quasi 9mila.

Pochi, secondo qualcuno, tanti, se si pensa all’impossibilità di dare una seconda chance a persone che nella maggior parte dei casi non sono semplici irregolari (migranti che entrano illegalmente in un Paese straniero) ma rifugiati o profughi, ovvero gente fuggita o espulsa dal proprio Paese a causa di discriminazioni politiche, religiose, razziali o, nel caso dei profughi, da vere e proprie guerre e persecuzioni. Secondo i dati del Viminale aggiornati al 7 agosto, la nazionalità più dichiarata al momento dello sbarco è quella eritrea, ex colonia italiana che solo quest’anno ha costretto alla fuga oltre 26mila persone. Poi ci sono nigeriani, somali, siriani, e altri migranti da Paesi africani, ad eccezione degli oltre 4mila in arrivo dal Bangladesh, attraverso chissà quali peripezie. A guidare invece la classifica dei rimpatri sono gli albanesi, con 3.250, seguiti dai tunisini e dai marocchini.

Il caso dell’Italia non è però stato l’unico di un’estate che ha tormentato altri Paesi europei, a incominciare dalla vicina Francia. In pochi dimenticheranno le immagini arrivate a giugno da Ventimiglia, al confine tra l’Italia e il Paese di François Hollande: la polizia transalpina, secondo qualcuno violando gli accordi di Schenghen, impedì – anche con l’uso della forza – il transito ad alcuni migranti (in realtà poche centinaia, ma l’episodio fu simbolicamente significativo). Questo perché le normative europee prevedono che, in merito ai richiedenti asilo politico, ogni Paese si tenga i suoi “ospiti”, lasciando dunque la patata bollente a Stati geograficamente (e giuridicamente?) più esposti come Italia e Grecia.

I ministri degli Interni dei 28 Paesi si riunirono a metà giugno per trovare un accordo sulle nuove linee guida dell’Unione in materia di immigrazione, che prevedessero la ridistribuzione dei richiedenti asilo nei diversi paesi dell’Unione attraverso un sistema di quote. La proposta era stata fatta dalla Commissione europea e prevedeva in particolare il ricollocamento nei diversi paesi dell’Unione di 40mila migranti arrivati in Italia e Grecia: accordo però mai trovato, a causa dell’intransigenza proprio di Francia e Germania. Qualche migrante però in Francia ci è arrivato ugualmente e ha poi tentato di raggiungere la Gran Bretagna: qualcuno di loro ci ha provato attraversando drammaticamente a piedi il tunnel della Manica, che collega Calais a Dover e dove hanno lasciato la vita decine di persone da giugno. Proprio poche ore fa i due governi hanno raggiunto un accordo di collaborazione per intensificare congiuntamente i controlli a Calais e rimpatriare gli irregolari.

Un altro epicentro dell’emergenza è stata la Grecia. Non bastasse la crisi economica e politica che lo ha travolto, il Paese ellenico si è dovuto accollare anche il peso dell’immigrazione. E praticamente sotto silenzio, almeno fin quando è scoppiato il caso dell’isola-prigione di Kos: le immagini delle migliaia di immigrati accalcati in un campo di calcio sotto un sole cocente (nel luglio più caldo della storia recente…) hanno fatto il giro del mondo, ispirando anche una sferzante inchiesta del New York Times. E adesso anche la vicina Macedonia dichiara lo stato d’emergenza.

C’è poi chi, favorito dal fatto di non essere bagnata dal mare, ha incredibilmente pensato persino di erigere un muro a difesa dei propri confini: è l’Ungheria del discusso premier Viktor Orban, che a luglio ha fatto approvare al Parlamento magiaro nuove misure per combattere un fenomeno che in effetti colpisce Budapest e dintorni molto di più – in proporzione – di qualsiasi altro Paese europeo. Nei primi tre mesi del 2015 L’Ungheria ha infatti ricevuto 32.810 richieste d’asilo (il 70% da parte di kosovari), contro le 2.735 dell’anno precedente: dietro solo alla Germania e più del doppio di quelle italiane. In proporzione ai suoi abitanti, l’Ungheria ha dunque il più alto numero di richiedenti asilo d’Europa. Ma a quanto pare, non sarà lì che molti di loro troveranno una seconda opportunità. Ma certamente non è quella della costruzione di nuovi muri la via che può risolvere l’emergenza.

La questione, a livello continentale, è dunque sempre più aperta e reclama una risposta politica che finora non c’è. E anche nuove risorse.

Secondo i dati dell’inchiesta “Migrant files”, negli ultimi 15 anni i paesi europei hanno speso circa 11,3 miliardi di euro per espellere i migranti irregolari e 1,6 miliardi per rafforzare i controlli alle frontiere. Ogni espulsione costa in media quattromila euro, e metà del costo serve per coprire il trasporto. L’agenzia delle frontiere dell’Unione europea (Frontex) ha usato circa un miliardo di euro e i paesi del Mediterraneo almeno 70 milioni per acquistare imbarcazioni, visori notturni, droni e altri mezzi per cercare di controllare le frontiere. Dal 2011, i contribuenti italiani hanno pagato alle autorità libiche oltre 17 milioni di euro per l’acquisto di navi e di strumenti di visione nottura e per addestrare uomini. Gli spagnoli hanno speso 10 milioni di euro per la manutenzione delle cancellate attorno alle loro enclave in Nordafrica, Ceuta e Melilla. Dal canto loro, e questo è il dato più triste e avvilente, i migranti hanno pagato oltre 15,7 miliardi di euro ai trafficanti per cercare di raggiungere l’Europa. Tra i soldi spesi dai paesi europei e quelli versati da chi vuole raggiungere il continente, sono stati usati 27 miliardi di euro in 15 anni. Ma il dramma resta davanti agli occhi di tutti.

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