Le tensioni tra l’Italia e la Commissione europea sembrano non avere fine. Al centro del “botta e risposta” di questi giorni tra il premier Renzi e diversi esponenti dell’esecutivo europeo – ieri a Jean-Claude Junker si è aggiunto anche il Commissario per gli affari economi Pierre Moscovici -, vi sono le spese per l’immigrazione e il loro impatto sui conti pubblici nazionali. In particolare, Renzi ha mostrato una certa irritazione per il diverso trattamento contabile che la Commissione sembra voler applicare al contributo dei paesi europei alla Turchia, che verrà scorporato dai disavanzi nazionali, rispetto a quello riservato alle spese dei singoli stati per la gestione degli immigrati che, invece, verrà valutato “caso per caso”, senza nessun automatismo.
Per l’Italia, ad esempio, il via libera per la cosiddetta “clausola sicurezza”, circa 3,6 miliardi di euro (circa lo 0,2 per cento del Pil) da sottrarre dal calcolo del deficit ai fini de rispetto delle regole fiscali europee, non è ancora arrivato. Dal punto di vista del premier italiano, si tratta di una distinzione inaccettabile perché “non ci possono essere immigrati di serie A”, i siriani che affollano i campi profughi in Turchia e “immigrati di serie B”, i migliaia di disperati che l’Italia salva dal mediterraneo ogni giorno grazie al lavoro instancabile delle forze dell’ordine e dei volontari italiani.
Questa affermazione, efficace e inattaccabile dal punto di vista politico è, tuttavia, fuorviante: la distinzione effettuata dalla Commissione europea non attiene, infatti, al tipo di migrante bensì al tipo di finanziamento. La natura della spesa è uno dei criteri che l’esecutivo comunitario segue nell’applicare le regole fiscali.
L’aiuto finanziario alla Turchia (circa 3 miliardi di euro) per frenare l’afflusso di profughi in Europa è stato deciso al Consiglio europeo del dicembre scorso: una misura fortemente voluta dalla Germania, alle prese con un arrivo massiccio di siriani di difficile gestione, ma concordata insieme agli altri capi di Stato e di governo. L’Italia, però, prima di mettere i soldi sul piatto (280 milioni di euro) vuole capire “il modo di intendere e concepire questo contributo” perché restano ancora due questioni aperte.
In primo luogo, il governo di Roma vorrebbe che tutti i 3 miliardi di euro, e non solo un terzo, fossero a carico dei fondi comunitari. Si tratta, però, di una richiesta non facile da soddisfare dal momento che, per il periodo 2014-2020, la gran parte del bilancio europeo è stata già allocata. Il bilancio, tra l’altro, è assai esiguo (circa l’1 per cento del Pil europeo) visto che l’ammontare totale è stato ridotto del 3,5 per cento con il consenso di tuti i paesi. Allora, se proprio il contributo deve essere finanziato dai singoli stati, e qui veniamo al secondo punto, queste spese, dal punto di vista del governo di Roma, dovrebbero essere scorporate dal deficit ai fini del Patto di Stabilità e Crescita.
Su questo, la Commissione è perfettamente in linea con la posizione italiana, e – anche nei giorni scorsi – ha ribadito che la quota nazionale per aiutare il governo turco non avrà nessun impatto sui conti pubblici. Trattasi, infatti, di una spesa “una tantum”, effettuata una volta sola e, pertanto, in base alle regole fiscali europee, detraibile dal calcolo del disavanzo. Diverso sarebbe stato, invece, se si fosse deciso per un’assistenza ai campi profughi duratura nel tempo: la spesa non sarebbe “una tantum”, bensì “permanente” e come tale avrebbe un impatto sui conti pubblici azionali.
Esattamente come lo hanno i soldi che gli stati membri erogano per gestire il problema dell’immigrazione in casa propria: queste spese non possono essere considerate “una-tantum”. La differenza tra spese “una tantum” e spese “permanenti” è, pertanto, essenziale per capire la posizione della Commissione. Difficile, infatti, includere spese permanenti per l’accoglienza ai migranti all’interno della clausole di flessibilità che autorizza “spese aggiuntive finanziate in disavanzo nel caso di eventi eccezionali”: il fenomeno dell’immigrazione a cui stiamo assistendo non è un purtroppo un “evento eccezionale”.
La parte che, invece, potrebbe essere considerata “eccezionale” – e quindi scorporabile dal calcolo del disavanzo -, è la parte aggiuntiva rispetto alla media degli anni precedenti. Ecco perché nel caso dell’Italia la Commissione ha deciso di prendere tempo e non si è ancora pronunciata: vuole fare una valutazione ex- post degli oneri sostenuti.
La logica sottostante queste regole fiscali europee – approvate e concordate da tuti i paesi -, è la seguente: le spese finanziate in disavanzo che comportano una deviazione dal percorso di aggiustamento devono essere giustificate (attuazione di riforme, incrementi di investimenti pubblici o presenza di circostanze eccezionali) e, soprattutto, devono essere temporanee: la crisi degli ultimi anni ha dimostrato quali siano le conseguenze sull’intera area di finanze pubbliche nazionali non sostenibili. Se, invece, le spese sono permanenti, allora rientrano nel calcolo del disavanzo. La verifica viene fatta a livello tecnico, con il lavoro degli sherpa a Bruxelles. Questo avviene per tutti i paesi e difficilmente l’Italia verrà trattata in maniere diversa. Farne un caso politico è del tutto inusuale e, forse, anche controproducente.