Le agenzie, fresche di stampa, nel confermare l’impegno dello Stato in Ilva accanto ai franco-indiani di Mittal, hanno visto mobilitarsi al nastro di partenza, pronta a candidarsi per i vertici della azienda, la solita compagnia di giro che si sposta, di volta in volta, laddove poltrone, incarichi ed emolumenti sono rimessi nelle mani della politica. A tamburo battente è sceso in pista anche il Corriere Economia con una fogliata, a pagina intera, riservata a Lucia Morselli, la candidata che vuole restare in sella in quel di Taranto. Una chiacchierata “in ginocchio” si sarebbe detto ai tempi di Pansa e di Bocca. Parole ovvie, ragionamenti elementari, buoni propositi. Nulla sarebbe rimasto nella memoria del giorno dopo se, in coda, la Morselli non avesse riservato un improvvido e alquanto inverosimile riferimento a Cesare Romiti.
Il “Cesare tutto d’un pezzo” avrebbe confidato alla giovane Morselli l’arte di scegliere i bravi dirigenti. “Guardagli le scarpe! (sic)”. Proprio così! Mai avrebbero sospettato i Callieri o gli Annibaldi, forse anche lo stesso Ernesto Auci, che la chiave del loro lavoro con Romiti fosse determinata dai mocassini di Rossetti o dalle stringate della Church’s. Eppure sarà lei la candidata di Mittal, gradita al Governo, a pilotare l’ennesimo tentativo di salvataggio della più grande acciaieria d’Europa utilizzando la prima tranche di quattrocento milioni di euro pubblici. Della signora non si ricordano particolari successi nella sua non breve carriera di dirigente industriale. Dopo un biennio (di solito) ha sempre lasciato gli incarichi apicali per rivolgersi altrove. Due anni insufficienti a misurare i risultati consolidati ma, al contrario, sufficienti per maturare buone uscite milionarie. Nessuno in due anni è in grado di radicare compiute azioni di risanamento e di riorganizzazione dando vita a bilanci consolidati in attivo.
I due anni trascorsi alle acciaierie di Terni saranno ricordati come quelli in cui l’Italia ha regalato ai tedeschi della Tyssen lo strategico lamierino magnetico, impoverendo per sempre lo stabilimento umbro. La signora l’abbiamo ritrovata quando si fece in quattro per portare a Taranto l’indiano Jindal, alleato di Giovanni Arvedi e in compagnia di Leonardo Del Vecchio. Eppure, in piena corsa, come al Circo equestre, seppe volteggiare da un cavallo all’altro trasferendo i propri servizi alla cordata vincitrice di Mittal, diventandone il manager operativo di punta. Se volessimo ricordare qualcosa dei suoi quasi tre anni di Taranto sarebbe difficile non andare oltre i massicci ricorsi alla cassa integrazione e le continue minacce di chiusura definitiva dell’impianto. Oggi la manager che “guarda le scarpe” pilota il matrimonio con lo Stato nell’interesse dell’azionista Mittal che, senza l’ombrello del denaro pubblico, avrebbe già gettato a terra le armi, costretto a massicci risarcimenti e a penali in favore del commissariamento della Ilva dei Riva. L’aspettativa immediata è più prosaica: gestire una buona fetta di miliardi del Recovery Fund.
Infatti la cosiddetta parte Verde del progetto Europeo, nata per sostenere la riconversione elettrica dell’auto tedesca e la chiusura pilotata delle obsolete centrali atomiche francesi, nella parte che toccherà all’Italia servirà a “riconvertire l’area a caldo” di Taranto. Il che vuol dire chiudere con l’acciaio come vuole ancora oggi la politica tarantina e pugliese. Per Mittal, infine, un doppio affare. Avrebbe a Taranto, in filiera, una appendice meccanico-manifatturiera di alta qualità ma costretta comunque ad utilizzare il suo acciaio di Fos sur Mer.
Il ministro Patuanelli dovrebbe muoversi col passo lento del montanaro. Non potrebbe permettersi l’ennesimo flop, non essendo venuto a capo di nessuna delle numerose crisi aziendali planate in questi anni sul ministero di Via Veneto. L’arma che oggi gli rimane è solo quella della indicazione del presidente e di due consiglieri d’amministrazione dell’Ilva, oltre ai membri del collegio sindacale. Ha l’opportunità di “mettere alle costole” della compagine indiana tre personalità di mestiere, perché l’acciaio reclama mestiere, esperienza, professionalità, capacità di guida. La finanza, come la sussistenza, segue. Primo compito capire come fare acciaio, farlo bene, a costo competitivo e di qualità costante e performante.
È in grado il Ministro di evitare l’assedio degli animatori di nomine? Sì, se si mette di buzzo buono a fare quello che i privati (che si misurano col mercato) fanno quando scelgono i loro collaboratori e i loro dirigenti. Guardano ai risultati ottenuti, alle capacità di comando, al curriculum professionale, all’esperienza civile che non è la frequentazione dei salotti o il passeggio nelle anticamene del potere. Parli allora con Giorgio Fossa (si faccia raccontare il successo di una struttura complessa come la Sea di Milano). Incontri Giampietro Benedetti della Danieli di Buttrio, che ha esportato in tutto il mondo la tecnologia siderurgica italiana. Vada a Cremona da Giovanni Arvedi e da Mario Caldonazzo. Se poi volesse finire in gloria faccia un salto da Antonio Banzato a Padova o a Osoppo dai fratelli Pittini. Una cosa è sicura. Tornerebbe a Roma con idee chiarissime e, soprattutto, con soluzioni utili alla difesa dei soldi e dell’acciaio italiani.
Sono un vecchio siderurgico bresciano. Ho lavorato in acciaieria 24 anni e otto mesi come metallurgista. Conosco il mestiere. Troppi parlano senza conoscere la materia. Per ottenere il metallo partendo dal minerale oggi ci sono solo due possibilità: con altoforno ottenendo ghisa e successiva affinazione in convertitore per ottenere acciaio; con trattamento di preriduzione tramite gas ottenendo preridotto e successiva fusione in forno elettrico. Con l’altoforno si hanno grosse rese e costi inferiori rispetto al preridotto. Il preridotto comporta grosse quantità di scorie smaltibili con difficoltà oltre che enormi consumi di gas. Oggi in tutto il mondo gli impianti a preridotto producono circa 10 milioni di tonnellate d’acciaio su un totale di 1800 milioni di acciaio. La produzione partendo dal rottame è semplicemente una rifusione e affinazione di pezzi di “ferrovecchio” che consente però di ottenere ottimi risultati quantitativi e qualitativi.
Attenzione, alcuni acciai non possono essere prodotti solo con rottame, necessitano di ghisa primaria, cioè quella dell’altoforno. Quindi concludendo: se aboliamo gli altiforni dovremo produrre acciaio con il preridotto, risolvere i problemi connessi e pagare di più ogni cosa che contenga, direttamente o indirettamente, acciaio, cioè quasi tutto. Oppure inventarci un nuovo sistema per carburare l’ossido di ferro del minerale per ottenere la ghisa e quindi l’acciaio.
Mi sembra che Arvedi abbia un fatturato triplo con metà del personale e con la tecnologia dei forni elettrici, che permette l’ utilizzo del rottame, quindi senza il problema del parco polveri che inquinano Taranto.