La decisione del Gip di Taranto di chiudere l’acciaieria e di mettere ai domiciliari la famiglia Riva conferma il corto-circuito nazionale. Siamo un paese nel quale le Istituzioni non sembrano più essere in grado di gestire in maniera coordinata problemi complessi. Ognuno si muove per conto proprio confondendo l’autonomia (sacrosanta) con l’autoreferenzialità . Sia detto senza offesa per nessuno ma più che al “particulare ” di Guicciardini questa condotta sembra ispirarsi al “a prescindere” di Totò. Si dice che l’ordinanza sia stata molto sofferta ma, evidentemente, non sofferta al punto di farsi carico delle conseguenze catastrofiche che essa può provocare.
L’acciaieria di Taranto, la più grande d’Europa, nasce da una geniale intuizione di Oscar Senigalia ed ha rappresentato una scommessa industriale che l’Italia ha vinto. Raddoppiarla è stato forse un azzardo, ma l’impianto di Taranto in tutti questi anni ha fornito all’industria Italiana l’acciaio a basso costo di cui aveva bisogno per svilupparsi: è stato, insomma, uno dei motori del miracolo economico.
L’acciaieria era di proprietà dello Stato ed è stata gestita con criteri che nulla hanno a che fare con la “cinica ricerca del profitto” di cui si parla nell’ordinanza. L’IRI non era un “robber baron”. Nel ’93 Taranto fu salvata dalla minaccia di chiusura dall’accordo Andreatta-Van Miert che consentì all’Iri di ripianare le perdite dell’Ilva a condizione di privatizzarla.
L’azienda fu ristrutturata (e molti furono gli esuberi) e ceduta, con una operazione più che trasparente, al gruppo Riva che ha dimostrato di saperla gestire con successo. In tutti questi anni, l’Iri prima e Riva poi, hanno investito ingenti risorse per ridurre l’impatto ambientale dell’impianto e lo hanno fatto in stretto contatto con i Sindacati e con le Istituzioni. Certo, un centro siderurgico, per quanto si faccia e per quanto ancora si farà, resta sempre un centro siderurgico, con un impatto ambientale importante. Ridurre questo impatto è possibile ed è doveroso farlo con l’innovazione dei processi produttivi, con tecnologie che migliorino la sicurezza del lavoro e riducano l’inquinamento, con la ricerca di nuovi materiali e con una azione continua volta a diversificare la base produttiva tarantina. Ma questo processo richiede del tempo, necessita di ingenti risorse sia pubbliche che private e presuppone uno sforzo convergente delle amministrazioni interessate. Ha ragione l’economista Viesti quando afferma che questo non può essere un compito della Magistratura. I giudici devono ovviamente segnalare la violazione di norme precise, quando questa violazione c’è, e debbono indicare le misure necessarie (e possibili) per porvi rimedio. Dovrebbero però astenersi da giudizi sulla ricerca cieca, e accanita del profitto perché non è questa la radice del problema dell’inquinamento a Taranto come altrove.
Taranto non è il prodotto della ingordigia capitalistica bensì di una fase storica dello sviluppo industriale che ha avuto caratteri e conseguenze simili in tutto il mondo Il superamento di questa fase non può avvenire per via giudiziaria ma attraverso un processo culturale e produttivo che stimoli l’innovazione,la ricerca,e la tecnologia. Un processo che faccia della riconversione e della sostenibilità ambientale fattori di sviluppo e di crescita e non di recessione e di impoverimento dei territori. In Italia non c’è soltanto Taranto. C’è Porto Marghera, Porto Torres e Siracusa. Ci sono le aree mino metallurgiche e c’è ancora Bagnoli, l’eterna incompiuta. Sono problemi enormi per risolvere i quali ci vorranno anni e ingenti risorse finanziarie che non abbiamo (i 3 miliardi di euro stanziati a suo tempo per finanziare alcuni di questi progetti sono stati requisiti da Tremonti e scomparsi nella voragine della Cassa integrazione in deroga ). Ci vorrebbe anche una comune visione del futuro produttivo del paese e una sinergia fra le Istituzioni e fra i Cittadini e le Istituzioni che oggi, purtroppo, manca I soldi prima o poi li potremmo anche trovare ma la coesione politica e culturale no. Quella la dobbiamo costruire noi e l’ordinanza dei giudici di Taranto, per quanto sofferta, non ci aiuta a fare un passo avanti in questa direzione.