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Ilva di Taranto: il giudice annulla la condanna dei Riva ma il Governo perde l’occasione di evitare il declino

La magistratura pugliese ribalta la sentenza di primo grado contro i Riva ma il ministro Urso sembra un mercante in fiera che cerca di vedere una fabbrica dimezzata, priva di un’area a caldo e assolutamente impossibilità a mantenere gli attuali livelli occupazionali a causa del vistoso ridimensionamento degli impianti

Ilva di Taranto: il giudice annulla la condanna dei Riva ma il Governo perde l’occasione di evitare il declino

Pare che il giudice di Berlino –che doveva riconoscere le giuste ragioni del contadino prussiano – si sia trasferito a Lecce e si sia occupato – finalmente con la dovuta imparzialità – del processo Ambiente Svenduto relativo al reato di disastro ambientale contestato alla gestione Riva, dello stabilimento ex Ilva di Taranto. La Corte d’Assise di appello di Taranto, distaccata a Lecce ha annullato la sentenza di primo grado nella quale erano stati condannati ben 26 imputati e-accogliendo le istanze degli avvocati della difesa (respinte in primo grado) ha spostato lo svolgimento del processo a Potenza per legittima suspicione, ritenendo non obbiettivi e in potenziale conflitto di interessi sia i giudici togati che quelli popolari a Taranto. Che l’aria stesse cambiando lo si era capito già nei mesi scorsi nei mesi scorsi, prima della pausa estiva quando il presidente Antonio Del Coco aveva sospeso il pagamento delle provvisionali da parte degli imputati del processo “Ambiente Svenduto” nei confronti delle parti civili costituite in giudizio, ben 1.500 tra cittadini di Taranto e associazioni.

Tali provvisionali (ciascuna da 5.000 euro), disposte a maggio 2021 con la sentenza della Corte d’Assise erano da intendersi come primi risarcimenti (come se l’esito del processo fosse già chiaro fin dall’iinizio
“La decisione di primo grado annovera numerose criticità”, ha scritto il presidente Del Coco nell’ordinanza di sospensione delle provvisionali, emessa su istanza di alcuni imputati, tra cui Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e gestori dell’Ilva, Salvatore Capogrosso, ex direttore dello stabilimento di Taranto, Adolfo Buffo, ex dirigente Ilva, i ‘fiduciari’ dei Riva – figure delegate dalla proprietà al controllo della produzione e degli impianti -, la Regione Puglia, attraverso il suo presidente e gli ex presidenti di Regione Puglia (Nichi Vendola) e Provincia di Taranto (Gianni Florido).

Con “l’estensione della responsabilità civile attinente alle contestazione ad imputati raggiunti da singole contestazioni di reati contro la P.a., o, viceversa, nemmeno correlati tra loro da contestazioni di concorso o norme di raccordo, la nozione di danneggiato dal reato è stata estesa in maniera pressoché illimitata”, ha scritto al riguardo lo stesso presidente del collegio, rilevando come fosse stata prevista la “liquidazione di somme di denaro anche per reati già prescritti in primo grado o a parti che non hanno concluso nei confronti di imputati o di responsabili civili”. Inoltre, per il presidente del collegio di appello, è stata riscontrata “la mancanza di qualsiasi motivazione del provvedimento di liquidazione in ordine alla indicazione della categoria di danno e delle somme ritenute oggetto di accertamento”.

La sentenza della Corte di appello ha provocato la protesta degli ambientalisti “E’ con profonda delusione che abbiamo assistito all’esito dell’udienza di oggi. Lo spostamento del processo d’appello ‘Ambiente Svenduto’ a Potenza ha conseguenze gravissime per l’intera comunità tarantina”. Lo dicono alcui esponenti dell’associazione ambientalista Peacelink, in prima fila nella battaglia contro l’inquinamento dell’Ilva; lo spostamento – aggiungono- comporta l’annullamento del processo di primo grado e questo significherebbe un allungamento dei tempi della giustizia e un rischio concreto di prescrizione per reati gravissimi come la concussione e, probabilmente, l’omicidio colposo. Lo spettro dell’impunita’ incombe sul processo ‘Ambiente Svenduto’.

Ricordiamo – dicono ancora da Peacelink – che i pubblici ministeri (che sono solo una parte nel processo, non una semidivinità, ndr) nel corso delle udienze, si sono espressi in modo chiaro e deciso contro il trasferimento del processo, sottolineando l’infondatezza delle eccezioni delle difese degli imputati (ma a giudicare non è il giudice terzo?, ndr). La lotta contro l’inquinamento dell’Ilva prosegue comunque – annuncia Peacelink – continueremo a garantire la nostra presenza in tutte le iniziative utili a proteggere la popolazione. Saremo sempre dalla parte delle vittime in quella che l’Onu (???) ha definito ‘Zona di Sacrificio'”.

Da un’altra associazione ( Veraleaks) si sottolinea che dal 2008, anno in cui partirono le indagini al 2021, anno della pronuncia della sentenza gi attivisti hanno impegnato buona parte della loro vita per difendere i loro diritti e per fare giustizia nei confronti di chi ha perpetrato un disastro ambientale acclarato” (da chi?, ndr). E’ un bel modo di intendere il ‘’fare giustizia’’ quello della consorteria ambientalista tarantina: danno per acquisite e indiscutibili le loro tesi. Il disatro ambientale sarà ‘’acclarato’’quando sarà emessa una sentenza passata in giudicato. La vicenda dell’ex Ilva è invece uno di quei casi che Filippo Sgubbi (un penalista di vaglia) definisce ‘’Punire senza legge, senza verità, senza colpa’’.

Quali erano le norme a cui lo stabilimento doveva attenersi? E’ ormai da decenni che le tecnologie di produzione industriale nella UE sono stabilite sulla base degli obiettivi di protezione della salute identificati a livello europeo d’accordo con l’Organizzazione mondiale della sanità. Ma, nello stabilire questi parametri, gli obiettivi di risanamento ambientale non possono non essere compatibili con altre esigenze riguardanti i diversi settori produttivi, come i problemi di ammortamento degli impianti, di risorse da investire, di coordinamento tra i diversi Paesi.

Soprattutto, i sistemi produttivi hanno necessità di avere dei riferimenti precisi ai quali attenersi per essere considerati in regola. Per comprendere questo fondamentale concetto, messo in discussione a Taranto, basta ricordare che l’industria automobilistica europea è stata obbligata, nel medesimo arco temporale, a cambiare drasticamente le tecnologie motoristiche, al pari dell’industria di raffinazione per quanto riguarda i combustibili con l’obiettivo di tutelare l’ambiente e la salute. Ma il cambiamento è proceduto per gradi sulla base di regole uniformi che divenivano di volta in volta non l’indicatore di una sicurezza assoluta, ma uno standard sostenibile e progressivo a cui attenersi in un quadro di certezza del diritto. Quando fu commissariata e gli impianti vennero confiscati non si accertò se lo stabilimento rispettava o meno i parametri vigenti e se fossero in corso iniziative di qualificazione degli impianti e delle attrezzature. L’Arpa della Puglia aveva certificato sulla regolarità dello stabilimento. Il tribunale e la procura di Taranto seguirono il loro teorema accusando il responsabile dell’Arpa di aver subito le pressioni del governatore di allora, Nicky Vendola, attraverso l’invito perentorio ad essere accomodante e condannò entrambi. Ma questo riconoscimento non venne solo dalle autorità politiche e amministrative.

Quando nel 1995 la famiglia Riva fu invitata ad acquistare l’ex Ilva, lo stabilimento perdeva 4 miliardi di lire l’anno. La nuova proprietà dal 1995 al 2012 effettuò investimenti per 4,5 miliardi di euro di cui 1,2 per misure di carattere ambientale. Queste operazioni sono state confermate da una sentenza del 2019 del Tribunale di Milano, in primo grado e in appello, nel procedimento per il reato di bancarotta fraudolenta nei confronti dei fratelli Riva (poi assolti). Nessuno è mai stato in grado di provare che l’ex Ilva abbia violato le leggi sulla tutela ambientale all’epoca vigenti. Lo smantellamento per via giudiziaria iniziò nel 2012, con una serie di incursione della procura tarantina che – paradossalmente – in nome del risanamento ambientale, e di intesa con le autorità politiche, ha fatto di tutto – dopo il sequestro dello stabilimento e dei prodotti finiti come prova del reato – per impedire anche la realizzazione delle misure di volta in volta adottate per rendere più sostenibile la produzione (come nel caso della copertura dei parchi minerali e fossili). Uno stabilimento siderurgico al pari di ogni altra attività produttiva non è in grado di trasformarsi in un’enorme serra fiorita, ma è tenuto a rispettare le norme di volta in volta vigenti in materia di sicurezza ed lavoro e di salvaguardia dell’ambiente. Le tecnologie di produzione industriale nella UE sono stabilite sulla base degli obiettivi di protezione della salute identificati a livello europeo d’accordo con l’Organizzazione mondiale della sanità.

Poi c’è la vicenda Arcelor-Mittal, l’acquirente che poteva salvare la fabbrica ma nei confronti della multinazionale franco-indiana si fece di tutto per boicottare lìoperazione, a partire dal negare ai suoi quello scudo penale che era sempre stato concesso in precedenza ai commissari. Un bravo sindacalista come Marco Bentivogli commentò così quella decisione: “Qualcuno investirebbe 3,6 miliardi in uno stabilimento in cui è ancora sotto sequestro giudiziario l’area a caldo? In un impianto per il quale la magistratura ha chiesto il fermo dell’altoforno? In una struttura che deve essere messa a norma sapendo che nel corso del tempo che occorre per farlo, non potendo fermare l’attività, i suoi manager potrebbero essere chiamati a rispondere di reati conseguenti a fatti penali riferibili alle gestioni precedenti?’’. Nei confronti di questo stabilimento non ci siamo fatti mancare nulla. Siamo arrivati al punto della discesa in campo di due procure: quella di Taranto e quella di Milano (che si considera una sorta di procura nazionale, abilitata ad intervenire in ogni dove).

La società ha provato a spiegare il suo ‘’non possumus’’: “I provvedimenti emessi dal Tribunale penale di Taranto” – era scritto nel comunicato con cui veniva annunciato il ritiro – “obbligano i commissari straordinari di Ilva a completare talune prescrizioni entro il 13 dicembre 2019 – termine che gli stessi commissari hanno ritenuto impossibile da rispettare – pena lo spegnimento dell’Altoforno numero 2.” Secondo la multinazionale franco-indiana, le suddette prescrizioni “dovrebbero ragionevolmente e prudenzialmente essere applicate anche ad altri due altiforni dello stabilimento di Taranto”. Ma tale spegnimento “renderebbe impossibile per la Società attuare il suo piano industriale, gestire lo stabilimento di Taranto e, in generale, eseguire il Contratto”. Alla fine Arcelor Mittal si è trovata nella stessa posizione di chi viene squartato da quattro cavalli legati ognuno agli arti inferiori e superiori, costretti a correre in direzioni opposte. Al management dell’ex Ilva è stato ordinato di spegnere e contemporaneamente di lasciare in funzione l’altoforno più importante dello stabilimento. In sostanza, di rispondere penalmente sia della continuità del funzionamento che della chiusura degli impianti.

In sostanza, il management correva il rischio di rispondere penalmente sia della continuità del funzionamento (richiesta da Milano) che della chiusura degli impianti (imposto da Taranto). I sindacati hanno mostrato un’enorme coda di paglia: il timore reverenziale per la magistratura e l’incapacità di sfidare la retorica ambientalista; impegnandosi così in azioni di lotta che evitavano accuratamente di scontrarsi con i veri assassini dello stabilimento e finendo per solidarizzare con i propri nemici. Si sperava che il nuovo governo – avendo meno fisime ambientaliste- sostenesse l’azione di Franco Bernabè il manager scelto da Mario Draghi per risolvere la crisi legata all’acciaieria. Ma il governo Meloni ha scelto di portare a termine il declino di quella che fu la più grande acciaieria d’Europa. Il ministro Urso sembra un mercante in fiera che cerca di vendere una fabbrica dimezzata, priva di un’area a caldo e assolutamente impossibilitata a mantenere gli livelli occupazionali attuali in conseguenza del vistoso ridimensionamento produttivo connesso alla nuova organizzazione degli impianti.

L’attuale maggioranza ha voluto sprecare l’istituzione (tra un mare di polemiche giustificate delle opposizioni) di una Commissione bicamerale di inchiesta per la gestione della crisi sanitaria da coronavirus. Sarebbe stato più opportuno occuparsi – mediante questo strumento di iniziativa parlamentare – del caso ex Ilva, magari allo scopo di implementare la lista dei reati e delle aggravanti (un’azione a cui il governo presta molto interesse) con una nuova fattispecie: l’opificidio.

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