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Il voto di Torino riapre i giochi sull’Italicum

FIRSTonline

Il voto di Torino più ancora di quello di Roma è la vera sorpresa dei ballottaggi che può cambiare il corso della politica nazionale e riaprire le riflessioni e le polemiche sulla legge elettorale.

A Roma la sconfitta del Pd era annunciata: dopo Mafia Capitale e dopo le tribolazioni dell’infelice Giunta Marino, i grillini avevano davanti una prateria e hanno cavalcato la protesta alla grande. Ora non hanno più alibi e dovranno dimostrare di saper governare una città difficile come la Capitale: se ce la faranno, come si augura chi ama la città, avranno più chances per candidarsi alla guida del Paese alle prossime elezioni politiche generali, altrimenti la loro stella comincerà presto a spegnersi. Come accadde alla Lega dopo la conquista di Milano un quarto di secolo fa.

Ma a Torino era difficile immaginare la vittoria della grillina Chiara Appendino. Non solo perché il sindaco uscente è una figura storica del Pd e della sinistra, da sempre in buoni rapporti con l’establishment, ma perché l’amministrazione di centrosinistra aveva dato, a giudizio di osservatori indipendenti, buona prova di sé. È vero che la Appendino viene dalla buona borghesia torinese e che la sua candidatura non spaventava l’establishment, ma com’è possibile che il Pd perda anche dove è da sempre alla guida di una città importante e dove ha saputo amministrare bene, a differenza di Roma? Ci sarà tempo per riflettere, ma il voto di Torino indica con chiarezza che, al di là delle dichiarazioni di qualche leader, gli elettori del centrodestra hanno varcato il Rubicone e, pur di sconfiggere il Pd e Matteo Renzi, non hanno esitato a dare il loro voto ai grillini. Del resto la Appendino ha subito ripagato l’intera città con un commento ai risultati elettorali inappuntabile e degno del suo nuovo ruolo istituzionale: si è rifatta alla storia di Torino e alle sue radici, ha reso l’onore delle armi al sindaco uscente e ha promesso di essere il sindaco non di una sola parte ma di tutti i torinesi.

A questo punto il voto di Torino, ancor più di quello di Roma, sembra destinato a influenzare il corso della politica nazionale e a riaprire la discussione sull’Italicum e sull’opportunità di ripensare l’attuale voto di lista per sostituirlo con quello di coalizione. Renzi è per ora contrario e ha qualche ragione: se si rimettesse mano all’Italicum senza averlo sperimentato e aprendo al voto di coalizione, forse vincerebbe le prossime elezioni politiche ma poi diventerebbe molto difficile governare perché tornerebbe alla guida del Paese non un partito ma un’alleanza di partiti e partitini, come succedeva ai tempi dell’Ulivo.

D’altra parte, se la sfida alle prossime elezioni politiche dovesse essere tra il Pd e il Movimento 5 Stelle, tra Renzi e Grillo, è facile immaginare fin da ora che tutta l’opposizione (di sinistra ma anche di destra) si coalizzerebbe contro il premier. Renzi ha detto, prima del ballottaggio nei Comuni, che in realtà, dati alla mano, oggi la sfida per la guida del Paese sarebbe tra il Pd e il centrodestra e non con M5S ma il gioco non cambierebbe ed è fin troppo facile supporre che, in quel caso, i grillini farebbero tranquillamente confluire i loro voti sul centrodestra pur di mandar a casa Renzi.

Tornano in queste ore alla mente gli avvertimenti di Giorgio Napolitano che, per evitare una deriva grillina, ebbe modo qualche mese fa di raccomandare a Renzi di riflettere sulla legge elettorale aprendo di fatto la porta al voto di coalizione, che avrebbe l’effetto di sanare temporaneamente le divisioni nel Pd ma che certamente aprirebbe molte incognite sulla futura governabilità del Paese. L’esperienza dell’Ulivo e delle sue lotte fratricide – che per due volte costarono la perdita di Palazzo Chigi a Romano Prodi, che pure aveva sconfitto per due volte Silvio Berlusconi alle urne – è lì a ricordarcelo. Vincere le elezioni è un conto e governare è un altro. Ma la politica, si sa, è l’arte del possibile. Mai dire mai.

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