Il Trump rally doveva sgonfiarsi secondo alcuni già nei primi giorni di gennaio, quando un’ondata di prese di profitto si sarebbe dovuta abbattere sulla borsa americana. Vendere nel 2016 avrebbe infatti significato subire una tassa sul capital gain molto più alta di quella che il Congresso deciderà quest’anno con effetto retroattivo al primo gennaio e in molti, si pensava, si sarebbero precipitati con l’anno nuovo a liquidare le posizioni che avevano nervosamente tenuto nel cassetto.
A questa ondata di vendite ha evidentemente risposto un’ondata di acquisti, perché l’indice non si è mosso. Per altri il Trump rally sarebbe andato incontro a una correzione intorno al giorno dell’inaugurazione, il 20 gennaio, quando le vaghe attese avrebbero lasciato il posto alla dura realtà. Anche in questo caso, tuttavia, l’ondata di vendite, se c’è stata, ha trovato di fronte a sé un’ondata di acquisti, perché l’indice, di nuovo, non si è mosso. L’indice si è poi mosso, ma al rialzo, negli ultimi due giorni, quando sono stati segnati due nuovi massimi storici.
Alcuni hanno attribuito questo ottimismo al fatto che il Dow Jones ha finalmente superato quota 20mila, ma questo superamento dovrebbe a sua volta essere spiegato. Altri hanno detto che il rialzo ha per causa la sorpresa per la mancata correzione. Altri ancora hanno parlato di utili migliori del previsto. A noi pare però che dietro la ripresa del rialzo ci sia, come causa più profonda, la percezione che il dollaro potrà essere tenuto sotto controllo e non toglierà troppo ossigeno alle politiche di crescita della nuova amministrazione americana.
Questa percezione ha due cause. La prima sono i buoni dati macro che si vanno accumulando in Europa e in Asia. La seconda sono i pronunciamenti di Trump e quelli del segretario al Tesoro Mnuchin, che ha parlato di un dollaro già oggi molto, molto caro. Se il rialzo della borsa inorgoglisce Trump, che ora si augura che possa proseguire, il rialzo del dollaro, che pure inizialmente lo aveva narcisisticamente gratificato, diventa ora, insieme ai tassi, una spada di Damocle che pende sul suo ambizioso obiettivo di alzare la crescita al 3 per cento.
Il dollaro ha varie ragioni strutturali che lo spingono al rialzo. La prima è il posizionamento nel ciclo. La valuta americana tende infatti a rafforzarsi nelle fasi di espansione, quando il differenziale dei tassi cresce, e a indebolirsi bruscamente durante le recessioni. La seconda ragione è che, da qui in avanti, oltre al differenziale dei tassi aumenterà anche quello della crescita e questo anche se, come abbiamo visto, le altre economie continueranno a sorprendere in senso positivo.
La terza ragione è il rimpatrio dei fondi che le imprese americane mantengono oggi all’estero. Questa ragione è meno importante di quanto si pensi (i fondi all’estero sono tradizionalmente detenuti in dollari ) ma non è completamente trascurabile. La quarta ragione è che la radicale riforma del sistema fiscale americano su cui sta lavorando il Congresso fornirà un fortissimo incentivo alle imprese multinazionali basate in America a spostare a casa la produzione. Si parla in proposito, impropriamente, di una border tax, ovvero di un dazio doganale del 20 per cento, ma la riforma è, nella sua grande semplicità, più estesa e più sottile. Le imprese americane verranno infatti tassate solo sulla differenza tra ricavi domestici e costi domestici e l’aliquota sarà, presumibilmente, del 20 per cento (contro il 35 di oggi). I costi esteri non saranno quindi deducibili, saranno trattati come reddito e saranno di conseguenza tassati al 20 per cento. L’export, in quanto reddito non domestico, sarà invece tax-free.
Gli Stati Uniti diventeranno così molto più competitivi anche se occorrerà qualche anno perché le imprese adeguino la loro filiera produttiva alla nuova realtà fiscale. Poiché i rapporti di cambio tra le valute tendono a seguire l’evoluzione del differenziale di competitività, è chiaro che la valuta del paese che migliora la sua competitività tenderà a rafforzarsi.
Gli analisti di Ubs hanno recentemente contrapposto a questi fattori di forza alcuni fattori di debolezza, che sarebbero per loro così forti da indurli a prevedere un deprezzamento, e non un rafforzamento, del dollaro. Questi fattori sono la sottovalutazione dell’euro, il posizionamento del mercato (pesantemente sbilanciato a favore del dollaro e quindi vulnerabile), l’inflazione americana in crescita e l’aumento del disavanzo pubblico americano, già in corso prima dell’arrivo di Trump e che Trump allargherà ulteriormente. Sono tutte osservazioni interessanti e pertinenti.
Osserviamo però che il posizionamento è, verosimilmente, solo un fattore di breve termine, che la sottovalutazione europea serve a tenere unita un’eurozona che altrimenti rischierebbe stress politicamente insostenibili e che la Fed, almeno per quest’anno, sorprenderà i mercati per la sua durezza così come ai tempi di Obama li ha sorpresi per la sua mitezza. Quanto all’esplosione del disavanzo pubblico, ricordiamo che ai tempi di Reagan questa coincise per qualche anno con un fortissimo rafforzamento del dollaro. Non siamo poi nemmeno così convinti che Trump farà davvero esplodere il disavanzo.
La riforma dell’Obamacare sarà in larga misura demandata agli stati. Le infrastrutture saranno basate su partnership con il settore privato. La spesa pubblica al netto di pensioni e sanità sarà tagliata. Sulle spese militari si punterà sugli armamenti, ma anche su un radicale taglio degli sprechi. Uno dei primi provvedimenti di Trump, d’altra parte, è stato un assai poco populista congelamento delle assunzioni di dipendenti federali.
Al momento della firma del decreto Trump aveva alla sua sinistra il suo stratega in capo Steve Bannon, un uomo che fino a tempi recenti ha militato nel Tea Party, un movimento per il ritorno allo small government e il contenimento del debito pubblico. Tutto considerato, un dollaro vicino ai livelli attuali (tra 1.05 e 1.10 contro euro), sarebbe ottimo per l’America (che su questi livelli può reggere ancora bene) e andrebbe benissimo a Europa e Asia. È sbagliato pensare che più una valuta è debole e meglio è, perché oltre certi livelli la debolezza crea solo pigrizia nelle riforme, inflazione, poca voglia di investire in produttività e, come nel caso tedesco, surplus delle partite correnti che vengono poi reinvestiti male in conto capitale.
Un dollaro relativamente stabile sui livelli attuali, anche a prezzo di ricorrenti interventi verbali, tweet e quant’altro sarebbe anche realistico e di buon senso. I benefici sarebbero considerevoli non solo per la borsa americana, ma anche per quelle di tutto il resto del mondo, che avrebbero ben poco da guadagnare e molto da perdere se Wall Street, a un certo punto, dovesse cadere schiacciata dal dollaro troppo forte. Più di tutti sarebbero avvantaggiati i mercati emergenti, rispetto ai quali ci si potrebbe concentrare sullo studio dei fondamentali (sottovalutati) senza essere ossessionati dallo studio dei flussi di capitali che vanno e vengono seguendo l’andamento del cambio. In Europa i vantaggi sarebbero più forti per la borsa italiana.