Sono passati trent’anni dalla firma del Trattato di Maastricht, il 7 febbraio 1992. Di fatto l’ultima grande tappa istituzionale dell’Unione Europea, elaborata allora nel quadro di una congiuntura politica favorevole anche grazie al determinante impulso della presidenza italiana del Consiglio Europeo tra il luglio e il dicembre del 1990. Dopo la caduta del Muro, la storia economica e politica dell’Europa si è fondata totalmente su quell’intesa. Nei prossimi mesi è in agenda la riforma del Patto di Stabilità, reso ormai inadeguato da due anni di pandemia e dal superamento di tutti gli attuali parametri della finanza pubblica comunitaria.
Jacques Ziller, presidente della Societas Iuris Publici Europaei, l’associazione di studiosi europei di diritto pubblico, è stato professore all’Università di Parigi 1-Panthéon-Sorbonne. «La mia generazione ha vissuto il periodo d’oro dell’integrazione europea, anche se pensavamo che il Muro di Berlino sarebbe durato per sempre. Maastricht ha dato per la prima volta centralità al Parlamento Europeo e ha posto le basi dell’odierna unione economica e della moneta unica. Oggi, purtroppo, non ci sono tutte le condizioni politiche per un’altra Maastricht».
Con quale congiuntura si era arrivati all’accordo di Maastricht?
«La spinta politica arrivava poderosa almeno da metà degli anni ’80, dal clima di entusiasmo europeista dopo l’ingresso di Spagna e Portogallo. Maastricht non era solo il risultato politico inevitabile dopo la caduta del Muro, fu un insieme di fattori positivi di convergenza. Per esempio, un ruolo importante venne giocato dalle strategie dei conservatori inglesi di John Major. Anche tra di loro infatti c’era una componente filoeuropeista».
La revisione del Patto di Stabilità è il prossimo grande appuntamento per l’Unione. C’è spazio per una riforma dei conti pubblici in senso europeista?
«All’epoca di Maastricht vennero scelti dei numeri di finanza pubblica direi quasi “a caso”. Con la moneta unica vennero istituzionalizzati e resi sacri. Il “lato tedesco” forse non sarà più un ostacolo, proprio il cancelliere Olaf Scholz potrebbe essere la chiave di volta di una riforma in senso aperturista. Con Bruno Le Maire ha dimostrato negli ultimi due anni una visione a lungo termine degli interessi europei».
Quindi ci sarà “più Europa” dopo la pandemia?
«Ci sono alcune condizioni favorevoli nel Continente. Il governo italiano è oggi molto apprezzato e stimato. L’atteggiamento del premier Rutte e dei Paesi Bassi non è lo stesso di due anni fa. Anche l’Austria ha un governo diverso. Ma sarà soprattutto la grande intesa tra Macron, Scholz e Draghi che potrebbe portare ad una revisione strategica delle regole sul deficit e sul debito».
Dopo una parentesi infelice dei rapporti bilaterali Francia e Italia, l’asse Roma-Parigi, sul filo diretto tra Emmanuel Macron e Mario Draghi, sembra intenzionato a spingere sull’integrazione.
«In effetti la Brexit ha cambiato gli scenari. Fino al 2016 si confrontavano quattro Paesi forti in Europa e l’Italia era la parte più debole di questi. Adesso sono rimaste tre grandi potenze, Germania, Francia e Italia. L’asse Roma-Parigi riporta alla situazione di 70 anni fa, quando le iniziative franco-italiane guidavano lo sviluppo dell’Unione. Macron è più l’erede dei democristiani francesi dell’epoca, come Monnet e Schuman, che dei gollisti».
L’altro grande patto che governa l’Europa è quello tra Francia e Germania. Nonostante l’inflazione crescente, con il socialdemocratico Scholz insediato al Palazzo della Cancelleria federale si chiuderà finalmente il capitolo dell’austerità?
«Il governo Scholz potrebbe optare per una politica integrazionista sul modello di Helmut Kohl. I tedeschi hanno l’abitudine di stilare un contratto di governo serio e quello sottoscritto con i Liberali e i Verdi è molto più europeista di quelli del recente passato».
È in agenda l’istituzione di un’agenzia del debito europeo. Ma senza la politica sono rischiosi i passi in avanti nell’economia, la storia dell’Unione lo insegna.
«In pandemia abbiamo applicato straordinarie clausole di eccezionalità. Per andare oltre servirebbe la riforma dei Trattati. Ma qualsiasi governo, anche quello di Malta, potrebbe bloccare i lavori. Dal negoziato alle firme passa più di un anno, senza contare l’incognita dei possibili referendum. E in ultima battuta ci potrebbe essere il blocco da parte delle Corti costituzionali nazionali, penso soprattutto a quella della Germania».
Superato il capitolo doloroso della Brexit sarà l’Est Europa, il cosiddetto blocco di Visegrad, a rappresentare il futuro potere d’interdizione nell’integrazione politica?
«Ci sono “due Est”, il primo è quello dentro l’Unione, rappresentato dai fronti euroscettici di Polonia e Ungheria. A Budapest si vota a maggio, vedremo cosa succederà. E poi c’è il secondo Est, fuori Unione, quello della Russia di Putin. La crisi sul fronte ucraino potrebbe condurre ad un risultato inatteso: spingere per una maggiore richiesta di integrazione, così come è avvenuto dal 1950 al 1990 con la Guerra Fredda. L’Ucraina, fuori dall’Unione, potrebbe comunque diventare uno “Stato buffer” come la Finlandia fino alla caduta del Muro. In ogni caso la paura che corre lungo quel confine lunghissimo tra Russia e Polonia farà riavvicinare quest’ultima molto presto all’Europa».