Sono in molti a invocare un ritorno alla politica industriale, anche se poi non dicono quale, né per far cosa in concreto, né tantomeno ne stimano costi e coperture finanziarie. Si intuisce solo che intendono auspicare che la mano pubblica intervenga a rilanciare l’economia produttiva e l’occupazione nel nostro paese. Come se la mano pubblica ci capisse di economia globale o come se in passato non avesse già combinato abbastanza guai nel distorcere la concorrenza sul mercato. Sono molti anche quelli che invocano investimenti pubblici, materiali e immateriali, per dar lavoro e per porre le basi di una successiva crescita economica. Diciamo nella logica degli anni Cinquanta. Neanche questi secondi fanno numeri, né indicano in concreto quali investimenti pubblici, in quali campi, con quali strumenti societari visto che ormai le partecipazioni statali non esistono più, a parte l’abusata Cassa DD.PP., anzi ogni occasione è buona per millantare privatizzazioni di facciata. Nel frattempo il presidente del Consiglio Renzi coglie il senso viscerale di queste invocazioni e imbastisce lo Sblocca-Italia. Nel merito di questo provvedimento magari ci torneremo quando l’avremo analizzato per bene, ma intanto non possiamo non affrontare il quesito: che altro si potrebbe fare di serio?
Le scelte possibili ovviamente sono tre: 1) non far nulla, 2) fare tutto, 3) fare poco ma utile a innescare una reazione autofertilizzante. Della prima scelta non parliamo, perché purtroppo la conosciamo molto bene. Della seconda diciamo solo che andrebbe costruita per rendere il sistema produttivo italiano fortemente competitivo. Gli indicatori internazionali di competitività ogni anno sfornano classifiche in cui l’Italia scivola sempre più in basso. Per esempio, per l’overall ranking dell’IMD (International Management Development di Losanna) nel 2014 l’Italia sta al 46esimo posto su un totale di 60 paesi, quando invece nel 2013 stava al 44esimo, nel 2012 al 42esimo e nel 2011 al 40esimo. Drammatico. Pur non essendo tra gli indicatori più intelligenti, sia perché è basato su un mix non solo di statistiche ma anche di interviste umorali, sia perché i suoi parametri sono ponderati e aggregati senza una preventiva analisi della loro interagenza interna, tuttavia questo indicatore è il più disaggregato tra quelli in circolazione e fornisce graduatorie preziose per ogni fattore strutturale, dal livello di tassazione alla pubblica amministrazione, dalle infrastrutture ai servizi, da quelle scientifiche all’energia, dalla giustizia al mercato del lavoro, eccetera. Ebbene, lo spread per così dire su ogni versante dovrebbe divenire la stella polare per ciascun cammino di riforma strutturale. Vista la tendenza dell’Italia a precipitare nel baratro del ranking, ecco perché una politica efficace equivarrebbe alla seconda scelta, quella del fare tutto. Naturalmente, i nodi sono intricati, mancano ricette convincenti, quelle poche non sono ampiamente condivise perché ogni forza politica per sopravvivere aggrega il consenso delle potenziali vittime delle riforme, servirebbero un sacco di soldi che invece non ci sono, eccetera. Cose che sentiamo tutti i giorni.
Per la terza scelta, quella di trovare il bandolo della matassa, dobbiamo fare un’ulteriore premessa. Alcuni stimatissimi osservatori del mondo delle imprese dicono che ce ne sono parecchie che, nonostante questo fisco, nonostante questa pubblica amministrazione, nonostante questo paese, hanno “svoltato, si sono multinazionalizzate, hanno fatto innovazione, fanno utili a bizzeffe, sono fortissime. E, sia pur gradualmente, aumentano di numero. Nel loro insieme fanno ancora massa subcritica, nelle statistiche ancora non pesano abbastanza, ma ci sono e si moltiplicano. In altri termini, le imprese italiane migliori superano la selezione della specie imposta da uno Stato malvagio e così nascono mostri di bravura competitiva. Per definizione, sarebbe bene che lo Stato le ignorasse, altrimenti farebbe danni, sarebbe meglio che non ci si inventasse alcuna politica industriale tagliata a misura su di esse. Sarebbe meglio che lo Stato pensasse solo alla seconda opzione, quella di fare tutto per la competitività sistemica.
Una cosa virtuosa però secondo me lo Stato dovrebbe comunque cominciare a fare, senza arrecar danni. Come cercare il bandolo della matassa. Dovrebbe rendere possibile un fluido trasferimento tecnologico (TT). Mi spiego meglio. Mi dà fastidio chi dice «però le piccole imprese non fanno ricerca». È un po’ come, sul fronte simmetrico e opposto, criticare i centri di ricerca che non producono e non vendono. Ma che discorsi? Dico io, ognuno il suo mestiere, i centri di ricerca facciano ricerca e le piccole imprese – che sono oltre il 90 percento del sistema italiano, che non hanno tecnostrutture scientifiche e non possono mica crescere dall’oggi al domani – producano, vendano e basta. Il problema semmai è un altro, è che le piccole imprese non hanno neanche la cultura per sapere quali conoscenze tecnologiche adatte a ciascuna di loro esistano in giro e non saprebbero dialogare con i ricercatori, né questi con loro. Il TT è il passaggio di idee, know-how, tecnologie da un’organizzazione pubblica dedita alla ricerca (laboratorio pubblico, Università, organizzazione di ricerca non-profit) a un’altra dedita alla produzione di beni e servizi e può avvenire attraverso contratti di collaborazione tra Università ed impresa; consulenze; licensing dei brevetti; pubblicazioni; creazione di spin-off; mobilità di ricercatori, eccetera. Il primo esempio furono le stazioni sperimentali create nel 1885. Altri esempi sono stati nel corso dei decenni il Fondo ricerca applicata dell’Imi nel 1968, un articolo della legge 46 nel 1982, i parchi scientifici e tecnologici e i Bic negli anni Ottanta, i technology transfer office e gli spin-off delle Università a partire dalla fine degli anni Novanta. Tutti questi esperimenti hanno funzionato abbastanza, ma con costi di gestione elevati, efficacia sconosciuta e però alla prova dei fatti insufficiente. In Germania ci sono strutture di TT eccellenti. A questo spread qua non ci pensa nessuno.
Un tentativo diverso fu compiuto nel 2003 dal Ministero dello Sviluppo economico con un programma pilota di TT, denominato Riditt (Rete per la diffusione dell’innovazione e il trasferimento tecnologico alle imprese) e una dotazione finanziaria di appena 5,16 milioni di euro. La gestione fu affidata all’Ipi, Istituto per la promozione industriale, agenzia del Ministero stesso. Si puntò a far co-finanziare progetti destinati esplicitamente ed esclusivamente al trasferimento di tecnologie già sviluppate e disponibili, presso Università e centri di ricerca, con il vincolo che al progetto prendesse parte almeno un’associazione imprenditoriale, e che le tematiche ricadessero in quattro aree tecnologiche (automazione e sensoristica, materiali avanzati, biotecnologie, tecnologie chimico-separative). Si registrò un tasso di partecipazione molto superiore alle aspettative. Arrivarono 42 proposte progettuali, per un valore complessivo di oltre 40 M€, e l’aggregazione fra di loro di 203 organizzazioni diverse, tra cui 50 Università, 24 centri di ricerca, 66 associazioni imprenditoriali, 63 Centri di TT. La pioggia di risposte era spiegabile certo non con le risorse finanziarie concesse, quattro soldi, quanto piuttosto con la sete di conoscenze tecnologiche avvertita dal mondo dell’economia produttiva. Per avere successo, tali policy necessitano però a monte di un quadro conoscitivo del sistema di TT (operatori, tecnologie e meccanismi di interazione) e, a valle, di metriche e sistemi di monitoraggio e valutazione dell’efficacia del loro impatto. E invece oggi il quadro conoscitivo a monte è ancora alquanto limitato e i sistemi di monitoraggio e valutazione sono praticati solo in modo episodico. Nel frattempo l’Ipi è stato soppresso e il personale è stato assorbito dal Ministero.
Immagino che chi legge penserà: ecco la solita montagna che partorisce un topolino. E così preferiamo continuare a seguire i bollettini statistici sulla fiducia delle famiglie, sulla produzione industriale, sull’export, come se i problemi fossero congiunturali e non strutturali. Se il governo Renzi avesse cultura e sensibilità sufficienti metterebbe il TT al centro della sua azione. Questo sarebbe il vero sblocca-Italia, non i mille cantieri di cemento. La ministra Federica Guidi di sicuro questa sensibilità ce l’ha. Perché non si attiva?