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Il salame prodotto da Verdi è rinato oltre un secolo dopo

Il pregiato salume veniva prodotto nell’Ottocento nella tenuta del compositore Giuseppe Verdi: era ricavato dal maiale nero, una razza scomparsa nel tempo e tornata in auge proprio grazie ai pronipoti del salumiere del Maestro.

Dopo più di 100 anni dalla morte del Maestro, torna il vita il “salame verdiano”. A far rinascere lo storico salume sono stati i fratelli Massimo e Luciano Spigaroli, pronipoti di Carlo, che nella seconda metà dell’Ottocento andava di casa in casa a macellare il maiale e a fare salumi, e soprattutto era uno degli agricoltori che lavoravano nel podere Piantador di Giuseppe Verdi. Il famoso compositore, oltre che la passione per la musica lirica, aveva anche quella per l’agricoltura: pochi lo sanno, ma fu un abile e oculato imprenditore, in grado di produrre quella varietà di salame che poi si è persa nel tempo, visto che il maiale nero di Parma, da cui veniva ricavata, è scomparso per lasciare spazio alla razza Large White, ideale da allevare con gli scarti caseari del parmigiano.

“Ma noi ci siamo intestarditi – ha raccontato Massimo Spigaroli, che col fratello Luciano ha messo in piedi a Polesine Parmense, l’Antica Corte Pallavicina, un tempio del gusto emiliano -. La mia passione per il maiale nero di Parma nasce nel 2001 in occasione delle celebrazioni per i 100 anni dalla morte di Verdi. Il nostro bisnonno faceva i salumi per il Maestro e io volevo riproporre in un menù gli stessi sapori”.

“Dopo tanti tentativi a vuoto – ha anche rilevato Spigaroli – ho recuperato da un contadino dell’Appennino Tosco Emiliano qualche soggetto scuro. E con l’aiuto dell’Università di Parma abbiamo portato avanti una selezione che ci ha restituito il vero maiale nero di Parma, famoso fin dai tempi dell’Impero Romano”. Il risultato è che oggi ci sono 1500 capi e un consorzio di tutela, nonostante il maiale nero, a differenza del bianco, sia decisamente meno redditizio: cresce più lentamente (è pronto in due anni contro nove mesi), fa meno figli e ha bisogno di spazi quattro volte più grandi, con del terreno per grufolare.

Ma a sentire Spigaroli, il gioco vale la candela: “Dà una carne eccezionale: tenera, saporita e rossa come quella di un bue. Quando ho fatto i primi salumi ho ritrovato sapori perduti. Mi sono commosso. Le parti nobili, come il filetto, noi le presaliamo, le affiniamo per 120 giorni e le serviamo appena scottate. Il grasso, pestato e aromatizzato, lo mettiamo su una patata cotta nella creta.Consiglio di manipolarlo il minimo: un roast beef è una scelta perfetta”. Chi lo vuole assaggiare a casa può scoprire i negozi autorizzati alla vendita sul sito del consorzio. Oppure recarsi all’Antica Corte Pallavicina, dove oltre all’azienda ci sono due ristoranti e un relais e che ha anche lei una storia particolare, legata a Verdi.

Massimo Spigaroli

Tutto ebbe inizio nel 1882. “Tutto grazie a una lepre – ricorda Massimo Spigaroli -, se mio nonno non l’avesse uccisa per sbaglio, o se invece di dichiararlo onestamente se la fosse mangiata, non sarebbe stato cacciato dal podere del Maestro Verdi e non sarebbe arrivato alla Corte Pallavicina. E noi oggi non saremmo qui”. Il regno di Massimo e Luciano Spigaroli è iniziato nel ristorante di famiglia, Al Cavallino Bianco, fino ad arrivare in questa azienda dove è possibile fare l’esperienza gourmet (è stata frequentata e apprezzata anche da persone come Alain Ducasse a Carlo d’Inghilterra) e dove viene prodotto anche il culatello di Zibello, vincitore del titolo di “culatello supremo” al gran galà della Confraternita dedicata e ormai onnipresente sui banchi dell’alta gastronomia italiana e sulle tavole di ristoranti stellati.

Il “18 mesi” ha anche conquistato L’Eccellenza nella guida Grandi Salumi del Gambero Rosso. “È una questione di rispetto delle tradizioni e di proporzioni – aggiunge Spigaroli -. Noi ci siamo dati dei numeri: 5.000 pezzi l’anno di culatello in oltre 1.200 metri quadrati. Non di più. Questo è il rapporto che ci consente il nostro giro di cantine e stanze antiche affacciate sul Po. Il salume vive di microclima. Se glielo togliamo non avremo più quell’esaltazione di profumi e di gusti dovuti alle muffe nobili delle ultracentenarie cantine di stagionatura, non avremo più quella consistenza morbida e vellutata, quel sapore dolce e particolare di essenze fiumarole che ricordano la rosa e la viola. Tutte cose che ci regala la vicinanza del fiume Po”. 

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