Mentre la premier inglese Theresa May continua il suo road show per rafforzare i rapporti commerciali con i Paesi strategicamente più importanti nel quadro dei rapporti internazionali – dagli Usa alla Turchia – il rapporto sempre più critico tra Unione europea e Stati Uniti aggiunge un nuovo capitolo alla saga sul debito greco e italiano.
Prima di tutto il Fondo monetario internazionale ha pubblicato un rapporto in cui viene analizzato il debito greco ed evidenziato il rischio di implosione dovuto ad un ampliamento dello stesso che potrebbe raggiungere nel 2060 il 275%, portando le esigenze di finanziamento lorde al 62% del Pil. Attualmente il Fmi stima il debito al 180% e critica la scarsa accuratezza nelle valutazioni di sostenibilità dei gruppi di lavoro di Bruxelles che per altro non hanno ancora sbloccato l’ulteriore tranche di finanziamento legata al programma di bailout di 92 miliardi totali.
Inoltre il 6 Febbraio il Fondo terminerà il dibattito sulla capacità di gestione e rimborso del debito anche per rispondere alle pressioni dei governi di Germania e Olanda che spingono per un contributo dell’Fmi. Sempre nel documento si parla apertamente di elevata insostenibilità e di come anche l’implementazione delle politiche concordate secondo il programma Esm non permettano alla Grecia di evitare seri problemi sul lungo termine.
Così il Fmi continua a spingere sugli organi comunitari perché valutino una sostanziale ristrutturazione del prestito alla Grecia rivalutando un possibile allungamento del periodo di grazia e delle scadenze nonché un differimento nel pagamento degli interessi. L’unico punto in comune tra Ue e Fmi sta nel tentativo d’introdurre delle clausole per il mantenimento del surplus di bilancio prima del pagamento degli interessi al 3,5%.
E se le preoccupazioni nel caso greco son tangibili, sull’ipotesi di uscita dall’Italia dall’Ue si sprecano i giochi di parole, da Italexit a ExitItaly. Alcune case di investimento basate a Londra hanno cominciato a diffondere reportistica su questa ipotesi e anche Mediobanca pare abbia intrattenuto i suoi clienti in merito a fantomatici risparmi sui contributi europei.
Tenendo conto che nel 2017 l’Italia dovrà rifinanziare 260 miliardi circa di debito pubblico, certamente le recenti turbolenze sullo spread alimentate dal rischio di elezioni anticipate non stano aiutando l’arduo compito del Tesoro. Il Fmi vede sempre una crescita per l’Italia sotto l’1% sia per il 2017 che per il 2018. Ed in attesa che il decreto salva risparmio sia definitivamente sdoganato tutta l’attenzione torna sul rischio politico.
L’analisi fatta poi dalla Bce sui costi e gli oneri derivanti dagli impegni su Target2 nel caso di uscita dall’euro dell’Italia fa parte di un mero esercizio di studio che però ha dato occasioni a molti per sollevare un polverone da campagna elettorale .
L’uscita dall’euro non è praticabile per un Paese nelle condizioni economiche dell’Italia ed evidentemente non solo per un problema di indebitamento, già molto evidente, ma anche per i ritardi strutturali accumulati nell’arco di anni di alternanze politiche di governi che hanno mai dato respiro ad una pianificazione di riforme di lungo termine applicabili all’intero Paese, che resta ingolfato dall’eccesso di burocrazia e sotto il peso di un apparato statale lungi da un cambio di passo. E dopo che è sfumata definitivamente anche l’assegnazione dell’Eba (la European Banking Authority) al nostro Paese, diventa cruciale mettere un punto fermo alla questione Banche in tempi brevi per tentare una ripartenza convinta del Pil.
Sullo sfondo di nuove alleanze in crescita come quella tra Uk e Usa e tra Usa e Russia, l’Unione europea rischia di non riuscire a tenere il passo del Pil americano, soprattutto per la rinnovata debolezza di Grecia e Italia alle quali le politiche di Trump non giovano e neanche la sua influenza sul Fmi, che si farà sentire ancora più forte.
Così la spinta sui mercati azionari europei auspicata da più parti, e già frenata dalle tornate elettorali francese e tedesca, potrebbe essere vanificata definitivamente da una maggiore attenzione rivolta al mercato americano e ai Paesi emergenti. Questi ultimi riuscirebbero così a mitigare la volatilità derivante dall’impatto dei rialzi dei tassi americani.