Luigi Di Maio non perde occasione per annunciare l’introduzione in Italia del reddito di cittadinanza, anche se quello che si accinge a proporre è in realtà un semplice sussidio di disoccupazione, oggi rinominato reddito di inserimento. Nella parte finale di questo articolo cercherò di spiegare la ragione di questo reiterato inganno politico. Per il momento è sufficiente rimarcare il fatto che il reddito di cittadinanza e quello di inserimento non sono la stessa cosa.
Il reddito di cittadinanza, nelle parole di uno dei suoi più autorevoli teorici, il belga Philippe Van Parijs, è un “reddito di base incondizionato” garantito a tutti i cittadini, per tutto l’arco della loro vita, indipendentemente dal fatto che siano ricchi o poveri, occupati o disoccupati”, mentre quello di inserimento è un “sussidio” che viene elargito per un tempo determinato e a certe condizioni soltanto a chi ricerchi attivamente un lavoro. Il reddito di cittadinanza attiene perciò alla sfera della redistribuzione della ricchezza e rimanda alle politiche per lo sviluppo, mentre quello di inserimento attiene alla lotta contro la disoccupazione e rimanda alle politiche attive del lavoro. Di Maio dovrebbe occuparsi di queste ultime e lasciare ad altri l’arduo problema della creazione e distribuzione della ricchezza.
La sua principale proposta al momento sembrerebbe essere quella del potenziamento dei Centri per l’Impiego con un investimento di 2 miliardi di euro. Ma è davvero questo quello di cui abbiamo oggi bisogno? Secondo le ultime rilevazioni, i C.p.I. (che altro non sono che i vecchi fatiscenti Uffici di Collocamento) hanno avviato al lavoro non più del 3% delle persone che vi hanno fatto ricorso. Potrebbero fare certamente meglio, ma è difficile che possano fare molto di più per il semplice fatto che sono Uffici Pubblici (come l’anagrafe) e che come tali funzionano, sulla base cioè di una logica burocratica fatta di regolamenti, di procedure codificate e di controlli. Riempiono moduli, compilano elenchi, assegnano posti nelle graduatorie, verificano l’esistenza dei requisiti per usufruire dei sussidi, ma oltre non vanno perché non sanno e non possono.
Per aiutare una persona a trovare un posto di lavoro, uno sportello amico e un sussidio non bastano. Ci vuole qualcosa di più. Ci vuole che dietro lo sportello ci sia qualcuno che abbia competenza, professionalità ed esperienza. Qualcuno che sappia valutare le persone per poterle davvero aiutare ad autopromuoversi e a valorizzarsi. Qualcuno che abbia anche una effettiva conoscenza del mercato del lavoro e delle sue dinamiche. Questo non è un lavoro da Pubblica Amministrazione. È piuttosto un lavoro da impresa o, tuttalpiù, da agenzia, che non sia però interna alla P.A. e non faccia parte del Pubblico Impiego. Agenzie di questo genere esistono in tutta Europa e nel mondo ma in Italia sono autorizzate a operare soltanto da poco per il semplice fatto che solo da poco e dopo strenua resistenza l’Italia ha rinunciato a difendere il tabù del monopolio pubblico del collocamento (l’intermediazione di mano d’opera da parte di società private era considerata alla stregua del caporalato, cioè un reato).
Questo ritardo pesa e oggi di simili agenzie private, pubbliche o miste ne abbiamo davvero troppo poche. Quello che si deve fare, se si vuole dare una mano a chi cerca un lavoro, è moltiplicare il numero di queste agenzie favorendone la diffusione in tutto il Paese e se si devono spendere dei soldi è meglio darli ai lavoratori sotto forma di voucher affinché possano essere loro a scegliere da chi farsi aiutare. In sostanza, l’accento va posto più sul contrasto alla disoccupazione che non sul reddito (temporaneo) del disoccupato. Come ha scritto Edmund Phelps nel suo volume Premiare il Lavoro: “Nella lotta alla disoccupazione quello che conta è il lavoro, non il reddito. Aiutare una persona a trovare lavoro è infinitamente più importante ai fini della sua realizzazione umana che non assicurargli un reddito di cittadinanza a vita”.
E veniamo ora al punto del perché i 5 Stelle continuano a parlare del reddito di cittadinanza nonostante le proposte concretamente fatte vadano nella direzione di aumentare a dismisura i sussidi ma non certo in quella di garantire un reddito a tutti i cittadini. La ragione vera di questa insopportabile ipocrisia è che il reddito di cittadinanza rappresenta il coronamento della teoria economica della Decrescita Felice di cui i 5 Stelle (Casaleggio e Grillo) sono ferventi sostenitori. I teorici della decrescita (quelli veri, non Maduro o gli ambientalisti vegani) ritengono che il reddito di cittadinanza sia la risposta giusta da dare a due fatti precisi :
- al fatto che la rivoluzione digitale e l’automazione distruggeranno molto più lavoro di quanto non riusciranno mai a crearne, provocando in tal modo la creazione di un enorme esercito di riserva destinato a vivere di espedienti:
- al fatto che la crescita (che comunque non è né auspicabile né possibile avendo a loro dire lo sviluppo raggiunto il limite oltre il quale finirebbe per mangiarsi la Terra), non sarebbe comunque in grado di creare lavoro per tutti.
Da qui la necessità di garantire a tutti i cittadini un reddito sufficiente per vivere dignitosamente senza dover necessariamente lavorare. Ognuno, se lo vorrà, potrà cercarsi un lavoro, ma potrà anche fare altre cose se il lavoro disponibile non fosse di suo gradimento.
Il professor Von Parijs, cui non manca il senso dell’umorismo, ha onestamente affermato che il reddito di cittadinanza rappresenta “la via capitalistica al Comunismo”, un modo, cioè, per godere dei benefici promessi dal Comunismo (..a ciascuno secondo i suoi bisogni e da ciascuno secondo le sue possibilità) senza dovere necessariamente subire le tragiche conseguenze che tanti popoli hanno dovuto invece sperimentare. L’idea è quella di tenersi ben stretto il capitalismo, che sino ad ora ha dimostrato di essere l’unico motore capace di creare ricchezza, mentre la redistribuzione della ricchezza deve avvenire secondo i principi (per altro mai realmente messi in pratica) del suo principale nemico, il comunismo. Insomma, la botte piena e la moglie ubriaca.
Per i teorici del reddito di cittadinanza, il capitalismo deve perciò continuare a funzionare se non si vuole che la baracca crolli, ma, a tal fine, è opportuno utilizzare parte della ricchezza prodotta per garantire a tutti un reddito di cittadinanza onnicomprensivo, tale cioè da eliminare tutti i sussidi, le pensioni e le altre forme di assistenza intermediate dallo Stato. Il reddito di cittadinanza, a loro dire, avrebbe inoltre due effetti collaterali positivi: il primo è che riducendo il numero delle persone disposte a fare lavori faticosi ed umili mal pagati, stimolerebbe l’innovazione tecnologica e l’automazione e il secondo è che mettendo soldi in tasca alla gente, sosterrebbe i consumi.
A parte la singolare convergenze con alcune tesi della scuola monetarista di Chicago, quello che però i teorici del reddito di cittadinanza non ci dicono è quale sarebbe la sorte umana dei disoccupati. Pensano forse che i disoccupati volontari passerebbero il loro tempo leggendo o studiando, andando a caccia o a pesca e facendo soltanto quei lavori che amano fare, come Marx in una delle sue rarissime previsioni del futuro sperava sarebbe avvenuto una volta spezzate le catene capitalistiche? In realtà, nulla di tutto ciò avverrebbe, perché l’uomo, privato del lavoro, perderebbe la sua identità, la fiducia in se stesso e la sua stessa dignità. Non diventerebbe un hippy ma, con ogni probabilità, come profetizzava Huxley, un “idiota”, destinato a passare il suo tempo davanti a uno schermo televisivo o a una playstation. Un incubo, non un’utopia, e se qualche visionario pensa che sia un’utopia, allora si tratta di un’utopia reazionaria.