Il ministro e vicepremier Di Maio sembra essere davvero convinto che il reddito di cittadinanza sia lo strumento più idoneo per conseguire tre obiettivi: contrastare la povertà (anzi, abolirla!), ridurre la disoccupazione e promuovere la crescita. Una sorta di elisir miracoloso, un toccasana, simile a quello che Dulcamara, nell’omonima opera di Donizetti, vendeva ai contadini garantendo che avrebbe curato tutti i loro mali. Purtroppo, per lui e per noi, simili elisir non esistono e le cose sono molto più complesse di quanto, sbagliando, talvolta tendiamo a credere.
Il reddito di cittadinanza è una cosa estremamente seria (e anche pericolosa), sia sul piano teorico che pratico, e come tale deve essere affrontato. Ma una cosa è certa: la sua finalità NON È la creazione di lavoro e neppure la promozione di un più equo modello di sviluppo.
La sua finalità, come affermano gli economisti, di destra e di sinistra, che lo propongono è quella di sostenere i consumi interni e, per questa via, di sostenere l’economia. È, insomma, una manovra anticiclica, finalizzata a fermare la caduta della domanda e ad impedire che aumenti il numero delle persone che scendono sotto la soglia della povertà.
Se la causa della crisi è la scarsità della domanda allora la distribuzione di sussidi può anche funzionare (era a questo che pensava il monetarista liberale Milton Friedman quando parlava di helicopter money e cioè di soldi a pioggia). Ma se, come nel caso dell’Italia, la crisi è dovuta soprattutto ad una insufficienza dell’offerta (base produttiva troppo ristretta, bassa produttività e carenza di investimenti produttivi pubblici e privati) allora mandare in pensione la gente a 62 anni e distribuire sussidi un po’ qui e un po’ là non serve a molto. Ci vogliono altri strumenti.
Nel caso del contrasto alla disoccupazione il reddito di cittadinanza per come viene proposto, non serve. Servirebbero, invece, politiche attive del lavoro (cioè un governo efficiente del mercato del lavoro) e incentivi alle imprese per fare nuove assunzioni. Come ammoniva il premio Nobel E.Phelps, se si vuole ridurre la disoccupazione si deve avere ben chiaro che il problema principale “non è il reddito, è la disoccupazione”.
Per Di Maio, invece, sembra essere vero il contrario: prima viene il sussidio e poi…si vedrà. Ma di politiche che hanno privilegiato il sussidio rispetto a credibili percorsi di reimpiego negli anni 80 e 90 ne abbiamo sperimentate tante (e ne parlo per esperienza personale): dai lavori socialmente utili ai disoccupati organizzati, dalle cooperative degli ex dipendenti ai forestali calabresi e siciliani sino alle società scatola della Gepi (obbligate ad assumere migliaia di lavoratori delle imprese in crisi col compito di ricollocarli) e alle Casse Integrazione in deroga e che, di deroga in deroga, potevano durare anche dieci anni.
I risultati di questi vari tentativi sono stati sotto il profilo occupazionale assai modesti, anche se a quei lavoratori, in un modo o nell’altro, un reddito è stato garantito.
Con il Jobs act si è cercato, sia pure con fatica e con esiti ancora incerti, di imboccare una strada nuova che. Il governo del cambiamento si accinge ad abbandonare. La cosa più grave è però che con le sue promesse mirabolanti il governo rilegittima la convinzione, profondamente radicata nella mentalità italiana, che debba essere lo Stato a garantire il lavoro (non è forse un diritto?) e che a farlo possano essere i Centri per l’impiego (pochissimi e non adeguatamente attrezzati) ai quali spetterebbe l’onere di fare non una ma almeno tre proposte di lavoro, coerenti con i titoli del richiedente e possibilmente vicino a casa (massimo 50 Km). Nel frattempo lo Stato dovrebbe erogare un sussidio di 740 euro che, per un giovane che non vive a Milano ma in un paese del sud non sono davvero pochi. Il fatto che quel giovane debba, se richiesto, seguire un corso di formazione o prestare qualche ora di lavoro socialmente utile non cambia la sostanza delle cose.
Accanto all’idea che il lavoro sia un diritto che lo Stato deve garantire il governo alimenta anche la nostalgia per il monopolio pubblico del collocamento. Che quel monopolio (abolito soltanto nel 1997 a seguito di una sentenza di condanna della Corte di Giustizia Europea) abbia creato un mercato del lavoro duale (Nord e Sud, Garantiti e precari) e che abbia favorito la diffusione del lavoro nero e avviato al lavoro soltanto una minima parte di coloro che vi facevano ricorso sembra non contare nulla. Alimentare questo tipo di convincimenti e di aspettative che nessuno potrà mai soddisfare non è soltanto demagogia ma è un atto di imperdonabile irresponsabilità.
Non è questa la via da imboccare. I centri per l’impiego, prima di essere rifinanziati, andrebbero radicalmente riformati. Oggi sono degli uffici distaccati del Ministero, degli sportelli non molto dissimili da quelli dell’anagrafe, che compilano graduatorie ed elargiscono sussidi ma che non sono attrezzati per assistere davvero chi cerca un lavoro. Per poterlo fare questi centri dovrebbero uscire dal perimetro della P.A. e trasformarsi in vere e proprie Agenzie che non operano in un mercato di cui hanno il monopolio ma in un mercato aperto alla concorrenza, ma anche alla cooperazione, fra agenzie pubbliche e private. Queste agenzie pubbliche dovrebbero potere assumere personale qualificato e pagarlo in base al merito e ai risultati e il costo della loro attività, in caso di successo, non dovrebbe gravare soltanto sullo Stato ma anche su chi usufruisce dei loro servizi (con voucher, come previsto dal Jobs act o, come in Inghilterra, con una parte del primo stipendio).
Lo Stato non ha il dovere di trovare il lavoro ai suoi cittadini, ma ha, questo Si!, il dovere di aiutare chi quel lavoro sta attivamente cercando per la prima volta o ricercandolo perché ha perso quello che aveva. A questo i centri per l’impiego e le agenzie private del lavoro debbono provvedere, così come avviene negli altri paesi Europei a cominciare dalla Germania le cui politiche attive del lavoro Di Maio dice di volere imitare anche se, evidentemente, non le ha ben comprese. Il reddito di cittadinanza che prescinde dalle politiche attive del lavoro e da quelle per lo sviluppo e che il governo si accinge ad introdurre non serve per trovare o creare lavoro. Un mercato del lavoro efficiente, politiche adeguate perla formazione continua ed incentivi alle imprese per fare nuove assunzioni invece sì.