La posizione strategica, che controlla il passaggio fra i bacini occidentale e orientale del Mediterraneo, ha da sempre conferito alla Tunisia un ruolo importante nel delicato scenario geopolitico del Maghreb. In mancanza di una nuova costituzione, lo scenario politico ed economico è ora soggetto ad un alto grado di incertezza. Come si può leggere nel focus del Servizio Studi e Ricerche Intesa Sanpaolo, le ripercussioni della crisi politico-sociale sulle relazioni economiche si sono tradotte nel 2011 in una forte contrazione della crescita. Ciò ha incrementato il deficit di bilancio in rapporto al PIL, con il conseguente aumento del tasso di disoccupazione e la diminuzione delle riserve valutarie. Quest’anno il deficit corrente in rapporto al PIL è atteso oltre l’8%, mentre è salito il debito pubblico, alimentando il ricorso ad aiuti e finanziamenti esteri. Lo scorso mese di maggio S&P ha tagliato il rating del debito sovrano in valuta da BBB- (primo gradino di investment grade) a BB (penultimo gradino di investimento speculativo). Si è così evidenziato come sia sempre più necessaria l’attuazione delle riforme strutturali necessarie per migliorare la posizione finanziaria e riportare sotto controllo i conti pubblici. L’aumento dei prezzi di prodotti alimentari e risorse energetiche, aggravato dalle disfunzioni nel sistema distributivo, hanno determinato nel 2011 e nel 2012 una considerevole accelerazione dell’inflazione. Il tasso tendenziale è passato, negli ultimi due anni, dal 3% al 5,7%, mentre il core è salito oltre il 6%. Secondo le previsioni, nel 2013 le minori spinte dai prezzi dei beni importati dovrebbero far scendere l’inflazione media attorno al 4,5%.
La Tunisia è un’economia di piccole dimensioni (il PIL nominale ammonta all’11% dell’intero Maghreb), ma aperta e abbastanza diversificata. Il rapporto tra la somma di flussi commerciali e PIL (91% nel 2011) è il più alto tra i Paesi del Mediterraneo del Sud. Negli ultimi cinque anni gli IDE sono ammontati mediamente al 4% del PIL ed al 18% degli investimenti fissi lordi. Il turismo contribuisce a quasi il 15% del PIL, mentre le rimesse dei lavoratori emigrati nel 2011 sono state pari al 4% del PIL. Il coefficiente di correlazione del PIL non agricolo della Tunisia e dell’UE è pari al 63% (esportazioni, turismo e rimesse). Nel 2011 l’interscambio della Tunisia con l’UE è stato pari a 20,7 miliardi di euro, con le esportazioni tunisine pari a 9,8 miliardi (55% sul totale) e le importazioni a 10,9 miliardi (48% del totale). Le esportazioni tunisine sono costituite per circa l’80% da manufatti (abbigliamento e macchinari), prodotti energetici (16,3%) e chimici (4,7%). E, a livello settoriale, sono proprio il manifatturiero ed il mercato delle risorse energetiche i settori più colpiti dalla congiuntura europea. Essi contano infatti su industrie a basso valore aggiunto ed alta intensità di lavoro, come tessile/abbigliamento e trasformazione alimentare, ma anche meccanica ed elettronica al consumo. La competitività è stata difesa attraverso controlli su prezzi, salari ed aggiustamenti del tasso di cambio, che negli ultimi dieci anni è stato deprezzato di oltre il 20%. La crescita dell’economia non è stata sufficiente ad assorbire la forza lavoro ed il tasso di disoccupazione è ancora molto elevato (19%), soprattutto tra la popolazione istruita, dove supera il 30%.
A causa delle crescenti pressioni competitive asiatiche nelle produzioni più tradizionali e a basso contenuto tecnologico, l’industria tunisina si è diversificata verso settori a più elevato valore aggiunto, come elettronica, aeronautica, information technology e mezzi di trasporto. È stato favorito lo sviluppo di aree industriali regolamentate da leggi speciali e dotate di servizi di supporto, in cui sia possibile per le imprese high-tech operare a condizioni agevolate. Ma, senza l’attuazione di effettive riforme istituzionali, tali provvedimenti non sono in grado di ridurre l’elevata vulnerabilità dell’economia tunisina alla congiuntura esterna, soprattutto quella dell’UE. E neppure l’instabilità politica interna, dal momento che l’ondata di proteste di massa potrebbe riaccendersi se il governo non sarà in grado di avviare misure a sostegno dell’occupazione e del potere d’acquisto. L’ascesa dei prezzi al consumo è stata infatti la causa determinante delle dimostrazioni di piazza che hanno condotto alla caduta del precedente regime. Fino a quando, dunque, non saranno attuate le misure politiche ed economiche necessarie a spezzare questo circolo vizioso, il governo non potrà far altro che aumentare le spese per contenere la protesta sociale. E ciò, con il crollo delle entrate, causerebbe un ulteriore incremento di deficit ed incertezza, con il rischio di un peggioramento della situazione.