Trovare sui banchi del supermercato i mirtilli cileni trasportati in aereo in qualsiasi stagione e a un prezzo ragionevole fa piacere e fa comodo. Il libero commercio generalmente avvantaggia i consumatori, accresce la concorrenza e stimola l’innovazione. La decisione di Trump di imporre dazi su acciaio e alluminio ha suscitato un’imponente e allarmata reazione negativa, più a livello politico che di mercato, e a parte le poche contee della Pennsylvania che ancora producono acciaio, anche negli Stati Uniti l’idea che avviare guerre commerciali possa comportare per l’America vittorie facili e proficue è stata subissata di critiche.
Si è detto che aprire il vaso di Pandora degli accordi commerciali può portare alla fine dell’espansione in corso, a un’esplosione dell’inflazione e a un’accelerazione del movimento al rialzo dei tassi. Alcuni si sono spinti a dire che i conflitti commerciali aprono la strada a quelli militari. La reazione contenuta dei mercati, ormai ritornati vicino ai livelli immediatamente precedenti l’annuncio sui dazi su acciaio e alluminio, ci pare per il momento più ragionevole di quella sopra le righe dei commenti politici. Vorremmo fare sulla questione alcune considerazioni. Come nota Gary Shilling, il mondo non è stato creato senza dazi. Aggiungiamo che la storia economica dal neolitico in avanti, una storia tutto sommato di progresso, si è dispiegata all’interno di gabbie doganali.
Dalla Cina imperiale al Re Sole dazi e gabelle sono stati onnipresenti non solo tra stati ma anche tra regioni o città. La prima globalizzazione, quella seguita alle scoperte geografiche del Cinquecento, non fu frenata dai dazi, che contribuirono in realtà a finanziarla. Dal canto suo, lo sviluppo della grande industria americana dalla fondazione della Repubblica alla fine dell’Ottocento non sarebbe stato possibile senza gli alti dazi che la proteggessero dalla concorrenza britannica. Le tariffe doganali furono del resto la maggiore fonte d’entrata per il
governo federale americano dal 1789 al 1914.
Le brevi fasi storiche in cui il libero commercio fu parzialmente sperimentato, dall’Intercursus Magnus tra inglesi, borgognoni, olandesi e anseatici a cavallo tra Quattrocento e Cinquecento all’Europa della parte centrale dell’Ottocento, ebbero successo finché videro un equilibrio di forza tra i paesi coinvolti e terminarono non appena questo equilibrio venne meno. Karl Marx, all’inizio del 1848, si schierò a favore del libero scambio perché l’impoverimento che questo avrebbe creato tra i perdenti avrebbe creato le condizioni per la rivoluzione.
Roosevelt nel 1934 rimodulò ma non abolì le alte barriere doganali dello Smoot-Hawley Act del 1930. La forte ripresa della seconda metà del decennio avvenne, in America e in Europa, per via fiscale e non fu frenata dagli alti dazi.
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale gli Stati Uniti offrirono a Europa e Giappone accordi commerciali molto favorevoli in modo da facilitarne la ricostruzione. Questa situazione squilibrata si è protratta fino a oggi. La riforma fiscale americana approvata in dicembre voleva correggere uno di questi fattori di squilibrio (quello per cui l’America è l’unico paese che non rimborsa le imposte indirette ai suoi esportatori e l’unico che non tassa l’import) ma la lobby degli importatori lo ha impedito. Gli Stati Uniti sono del resto l’unico paese in cui la lobby degli importatori è più forte di quella degli esportatori.
La Cina, alfiere del libero commercio come lo sono sempre gli esportatori netti, aggiunge agli squilibri citati una notevole disinvoltura nell’appropriazione di proprietà intellettuale. Se un’impresa tecnologica occidentale vuole operare in Cina deve cedere know-how, altrimenti non viene ammessa. Negli altri settori, come l’acciaio, la Cina finanzia le perdite delle aziende pubbliche, che possono così esportare sottocosto e mandare fuori mercato i concorrenti americani ed europei. La Cina usa poi Messico e Canada per fare entrare i suoi prodotti negli Stati Uniti come se fossero di origine Nafta, godendo così delle agevolazioni previste dal trattato.
L’Europa non protesta con la Cina perché ha paura di perderne il mercato. L’America ci sta invece provando. Sarebbe bello se i fautori del libero scambio, oltre ad alzare la voce nei casi in cui chi è meno protezionista decide di diventarlo come gli altri, si levassero anche contro chi rimane, come Europa e Cina, più protezionista degli altri. È poi facile abusare del concetto di difesa nazionale, ma è anche comprensibile che l’America, che aveva venti fabbriche di alluminio nel 2000 e oggi ne ha solo due, si domandi come farà a produrre carri armati e portaerei il giorno in cui non avrà più siderurgia e metallurgia e ci sarà una guerra.
Proprio nei giorni scorsi Putin ha disposto che tutta la filiera militare russa utilizzi esclusivamente, entro il 2025, materie prime e componenti domestiche. Il libero scambio abbassa i prezzi attraverso la concorrenza e questo è il suo grande aspetto positivo. Ma quando di produttore ne rimane solo uno, perché è il più bravo e perché tutti gli altri hanno chiuso, questo (la Cina) può mettersi a fare i prezzi che vuole. È quello che rischia di avvenire nella distribuzione con Amazon e Alibaba. Oggi abbassano i prezzi, ma quando saranno rimasti da soli? Va inoltre detto che manipolare il cambio produce tutti i giorni gli stessi effetti dei dazi, con la differenza che i dazi si applicano di solito a un numero circoscritto di voci, mentre con il cambio si tocca tutto.
In particolare, la Germania ha superato l’anno scorso un livello intollerabile di surplus delle partite correnti pari al 9 per cento del Pil e si illude di cavarsela riducendolo al 7 entro l’anno prossimo attraverso la rivalutazione dell’euro e gli aumenti salariali che ne stanno riducendo la competitività. Anche al 7 la Germania si attirerà riprovazione e sanzioni quanto meno dall’America. Col 7 di surplus un paese che voglia evitare di passare per molto maleducato deve rivalutare oppure accettare di produrre (non solo assemblare) nei paesi in cui esporta oppure ancora rassegnarsi a subire dei dazi.
Anche il più paziente dei liberoscambisti non può continuare a vivere circondato da mercantilisti. Nel 2018 il Congresso americano non farà più nulla. Impossibile la riforma sanitaria, politicamente suicida la riforma del welfare, difficile qualsiasi altra cosa. Alla fine dell’anno il Congresso passerà probabilmente ai democratici. Trump, incapace di stare fermo, cercherà di realizzare qualcosa in politica estera e con un riesame completo degli accordi commerciali internazionali. Di free trade e fair trade, quindi, sentiremo ancora parlare molto. Se i difensori a oltranza del libero scambio suonano a volte ideologici e in conflitto d’interesse, l’America deve stare bene attenta a non superare, nelle sue richieste, la linea del fair trade.
Se la supererà farà male in primo luogo a se stessa. Non tanto per le ritorsioni (in una guerra commerciale gli esportatori hanno molto più da perdere degli importatori) quanto per l’impigrimento che il tepore protezionista crea nel tempo ai produttori domestici. È un impigrimento analogo, peraltro, a quello indotto dai cambi e dai tassi troppo bassi che vediamo nel resto del mondo. Venendo ai mercati, prosegue la fase di consolidamento e di limbo su tassi, valute e borse. Se l’inflazione, pur salendo, manterrà un passo lento e se gli utili del primo trimestre, come è possibile, usciranno buoni, i bond rimarranno su questi livelli e le borse, terminata questa fase di purgatorio, potranno cautamente riavvicinarsi ai massimi, per il momento senza superarli.