L’ombra del protezionismo si allunga sempre più sull’Europa, alimentato ormai senza risparmio dai suoi partner commerciali; primi fra tutti, i Paesi emergenti e quelli in via di sviluppo. E frena sensibilmente il faticoso cammino, non soltanto degli Stati membri dell’UE ma anche degli altri, verso la ripresa della crescita economica. L’allarme lanciato da un rapporto della Commissione europea (Firstonline ne ha riferito i contenuti ieri) ha riproposto la questione del perdurante e “inquietante” aumento, in particolare proprio nei Paesi emergenti o in via di sviluppo, di misure “potenzialmente dannose” o addirittura “fortemente perturbatrici” per il libero commercio internazionale. Un rapporto pubblicato non per caso alla vigilia del vertice del G20 che si tiene domani e dopodomani a San Pietroburgo, e che ha in agenda anche l’approfondimento dello scottante problema creato dalle crescenti limitazioni imposte da molti Stati all’import-export mondiale.
Tutto nasce nell’autunno di cinque anni fa, appena esplosa la crisi economico-finanziaria globale (che solo ora sembra avviarsi verso la sua conclusione), quando molti Stati ritennero che la strategia migliore per difendersi dal contagio fosse quella di innalzare o rafforzare barriere protettive sotto forma di dazi sulle importazioni e di aiuti e agevolazioni per le esportazioni. Strategia che nei Paesi che l’hanno adottata (i cosiddetti emergenti e quelli in via di sviluppo) nel breve periodo forse ha raggiunto i suoi scopi. Ma che ha penalizzato gravemente e in misura crescente nel tempo gli Stati membri dell’Unione europea, ossia il soggetto che occupa il primo posto nella graduatoria dell’import-export mondiale e che ha sposato da sempre (pur se con risultati alterni) la politica della liberalizzazione degli scambi commerciali.
Nonostante l’impegno assunto a Washington il 15 novembre 2008 dal G20 (il primo a livello di capi di Stato o di governo proprio in conseguenza dell’esplosione della crisi globale) di non far ricorso a nuove limitazioni degli scambi e inoltre di eliminare quelle esistenti, nei successivi cinque anni le misure restrittive dell’import-export adottate da un numero crescente di partner commerciali dell’Unione europea però si sono moltiplicate. Con grande disappunto del commissario europeo per il Commercio Karel de Gucht il quale, in occasione della recentissima presentazione del rapporto, ha affermato testualmente: “È preoccupante constatare che continuano a essere adottate sempre nuove misure restrittive del commercio internazionale mentre quasi nessuna di quelle esistenti è stata abolita”.
Però, con buona pace del commissario de Gucht, “à la guerre comme à la guerre”, come dicono i francesi: questo detto sembra aver ispirato l’introduzione di tante limitazioni agli scambi commerciali da parte di tanti Stati. “Alla guerra come alla guerra”, che è la traduzione in italiano di quel detto, sembra essere stata la parola d’ordine adottata dalla maggior parte dei Paesi partner commerciali dell’UE, nel senso che in caso di guerra (commerciale in questo frangente), volenti o nolenti, non ci si può esimere dal combatterla. Imponendo anche, come è stato fatto, restrizioni all’import e sostenendo l’export. A scapito di quei soggetti che, come gran parte degli Stati membri dell’UE, sventolano la bandiera del libero commercio.
Ma poco importa, “à la guerre comme à la guerre” è stato il principio ispiratore delle restrizioni commerciali adottate da ben 31 partner commerciali dell’Unione europea finiti sotto la lente d’ingrandimento della Commissione di Bruxelles. Ossia i componenti del G20, esclusi ovviamente la stessa UE e i quattro suoi Stati membri che fanno parte anche del G20 (Italia, Francia, Germania e Regno Unito), più 16 Paesi grandi e piccoli fra i quali Svizzera, Egitto, Malesia, Filippine e altri asiatici, sudamericani, africani e dell’Europa orientale.
Sono questi gli Stati che domani e dopodomani a San Pietroburgo sono chiamati a esprimersi sulla validità di quelle misure che essi stessi hanno adottato! Così come quei Paesi emergenti che in questi ultimi cinque anni hanno introdotto la maggiore quantità di nuove norme che penalizzano gli scambi commerciali: l’Argentina, il Brasile, l’India, la Russia, la Cina e più recentemente il Sud Africa e l’Ucraina. Ma è immaginabile che tutti questi Paesi possano fare harakiri sulle rive della Neva impegnandosi per la liberalizzazione del commercio mondiale?
Certo, si può capire che gli estensori dell’ultimo rapporto della Commissione UE sulle crescenti restrizioni imposte al libero commercio abbiano definito “fenomeno sorprendente” l’adozione di limitazioni agli scambi commerciali da parte dei Paesi emergenti o in via di sviluppo. Paesi dove – sostengono gli autori del rapporto – la crescita economica e lo sviluppo dell’export dipendono intrinsecamente dall’andamento delle importazioni. Paesi che dovrebbero avere un interesse concreto per combattere le restrizioni nei confronti degli scambi commerciali internazionali. E che – secondo il rapporto – rafforzerebbero la loro competitività, contribuirebbero al risanamento economico in altre regioni del mondo e incrementerebbero la domanda mondiale, in particolare con vantaggi proprio per i Paesi emergenti.
Ma quale accoglienza potranno avere queste argomentazioni nel contesto del G20? Inoltre quanto spazio potrà essere dedicato al tema delle restrizioni al commercio internazionale nel corso dei due giorni di confronto a San Pietroburgo? E come si concluderà un confronto che dovrebbe essere incentrato sui temi della crescita economica e della lotta alla disoccupazione, ma che potrebbe essere dirottato almeno in parte su quello caldissimo della crisi siriana?