L’unicità del formaggio sta nelle caratteristiche del suo territorio, di cui scrisse anche Virgilio nell’Eneide: merito delle sorgenti sulfuree di quest’area in Irpinia
Un formaggio unico che nasce nel cuore dell’Irpinia, in provincia di Avellino, in un territorio raccontato anche da Virgilio, nel libro settimo dell’Eneide. Una valle, scriveva il poeta mantovano, caratterizzata da “oscure selve”, da “un fiume che per gran sassi rumoreggia e cade” e “che fa spelonca orribile e vorago onde spira Acheronte”.
Quel luogo è la valle d’Ansanto ed è in questo angolo di Campania, e più precisamente in Località Carmasciano (nei Comuni di Sant’Angelo de’ Lombardi, Rocca San Felice, Guardia de’ Lombardi, Frigento e Villamaina) che da tempi immemorabili si produce il pecorino di Carmasciano, entrato ora a far parte dei Presidi Slow Food.
Il latte delle pecore tenute al pascolo in zona, nell’area delle antiche “Mefite della Valle d’Ansanto”, viene riscaldato a circa 37-40 gradi e coagulato con caglio di agnello o capretto prodotto artigianalmente. Dopo circa 30 minuti dall’aggiunta del caglio si rompe la cagliata, si toglie il siero per la produzione della ricotta e contemporaneamente la parte solida così formata si lavora con le mani fino ad ottenere una pasta compatta che si sistema nella fuscella, il piccolo cestello di vimini dove viene lasciata a riposare per circa 48 ore.
Le forme vengono poi scottate nel siero caldo, sfregate con sale e, dopo 10 giorni, spennellate con olio d’oliva, vino bianco e aceto. Si ottiene, infine, un pecorino dal sapore unico che può essere più o meno stagionato, consumato a fette o grattugiato.
Il pecorino di Carmasciano è particolare per due ragioni, spiega Angelo Lo Conte, fiduciario della Condotta Slow Food Irpinia Colline dell’Ufita e Taurasi: «La prima sono le caratteristiche esalazioni di zolfo che, entrando nel circolo della crescita delle erbe spontanee e quindi dei foraggi di cui si nutrono le pecore, si riscontrano anche nel latte e i cui sentori si ritrovano pertanto anche nel formaggio».
La seconda ragione riguarda invece gli animali: «Le pecore sono di due razze differenti, chiamate laticauda e bagnolese, entrambe tipiche dell’Irpinia» prosegue Lo Conte. La prima, che deve il nome alla sua caratteristica coda larga, è a sua volta un Presidio Slow Food; la seconda, invece, è inclusa nell’Arca del Gusto di Slow Food, il progetto con cui la Fondazione Slow Food per la Biodiversità Onlus segnala le specie vegetali e le razze animali che rischiano l’estinzione.
In virtù di queste caratteristiche, il pecorino di Carmasciano conserva un forte legame con un territorio che fatica a riprendersi dal terremoto del 1980. «È l’unica zona dell’Irpinia a non aver subito uno stravolgimento, nonostante le gravi perdite causate dal sisma – spiega Lo Conte – È scampata all’edificazione e non è stata oggetto di quelle promesse di sviluppo industriale che spesso poi non sono state mantenute.
Questo territorio è rimasto una zona agricola al riparo anche dalle sirene che hanno ammaliato agricoltori di altre aree, dove sono state avviate colture industriali di barbabietole e tabacco, causando la perdita di biodiversità e tradizione e provocando gravi danni di inquinamento ambientale».
Oggi le aziende che producono il pecorino di Carmasciano del Presidio Slow Food sono soltanto sei: «Ci sono però almeno un’altra trentina di famiglie che producono come accadeva a inizio ‘900, cioè per consumo familiare, con greggi da appena venti o trenta pecore, trasformando il latte e vendendolo fuori dai canali convenzionali», prosegue Lo Conte. L’obiettivo, aggiunge, è riuscire a «coinvolgere anche loro nel Presidio Slow Food e incentivarli affinché si dotino di locali autorizzati alla trasformazione e alla vendita, entrando in dinamiche commerciali moderne che aiutino anche a combattere il commercio del falso Carmasciano – un fenomeno purtroppo diffuso -, garantire l’identità e la tracciabilità del prodotto e avere una produzione sufficiente a soddisfare la richiesta».
«Il territorio soffre, perché ci troviamo in aree dell’Appennino che rischiano lo spopolamento e la fuga verso zone più ricche – aggiunge Donato Merola, fiduciario della Condotta Slow Food Alta Irpinia – Noi, in ogni caso, puntiamo al rilancio e un turismo di qualità, in questo senso, può dare una mano».
Serve insomma dare una scossa, provare a innescare un circolo virtuoso che rianimi l’economia della zona. Il pecorino può aiutare, anche se la sua lavorazione dura soltanto il periodo del pascolo, cioè tra dicembre e luglio: «Quest’area dell’Irpinia non è un ambiente dove l’industria si incastona bene – sostiene Annamaria Rosamilia, referente dei produttori – L’unica via di uscita, forse, è proprio fare qualcosa che dia valore al territorio». A partire dal pecorino, ma senza fermarsi qui.