Intellettuale di alto rango, filosofo, parlamentare nazionale ed europeo, già professore e rettore dell’Università Orientale di Napoli, Biagio de Giovanni è un acuto osservatore di come cambiano le formazioni politiche. FIRSTonline lo ha interpellato a proposito del Partito democratico e di come sta affrontando l’ultima delle sue trasformazioni. Ecco la sua intervista.
Professore, il Pd è da tempo al bivio tra rinnovarsi o perire ma, malgrado la secca sconfitta delle ultime elezioni politiche, la lunga e contorta fase congressuale non sembra aver dato finora una risposta convincente sull’identità e sulla strategia futura. Secondo Lei, il Pd è ancora in tempo per tornare protagonista della scena politica o dovrà rassegnarsi al declino?
“Prima di entrare nel merito della domanda, se permette, vorrei fare un’osservazione sull’astensione, il fenomeno che ha caratterizzato le ultime elezioni regionali più del risultato stesso del voto: solo il 41,6% degli elettori si è recato alle urne in Lombardia e il 37% nel Lazio. Un’astensione enorme ed essenzialmente anomala. Noi stiamo assistendo, senza esserne veramente consapevoli, alla fine della democrazia rappresentativa. E io ne trovo le cause in due fenomeni che stanno cambiando profondamente la nostra comunità. La principale è che le società contemporanee non sono più rappresentabili. Cioè non hanno più la struttura connessa, connessa per classi, solidarietà, grandi gruppi, grandi partiti, per cui la rappresentanza rimane campata per aria. Un candidato oggi può prendere il 6% dei voti e domani il 40%: come è possibile? Non è questo un segno visibile della crisi della rappresentanza? La seconda causa della fine della democrazia rappresentativa è legata alla cultura digitale. Nessuno che pratichi questa cultura si sente rappresentato né ha bisogno di rappresentanza. Vuole scegliere direttamente. Ecco che la democrazia rappresentativa muore. Nelle elezioni che hanno meno impatto, come le regionali, questo fenomeno è già in atto. Ma questo è vero il problema del futuro, perché accadrà ancora, e anche negli appuntamenti elettorali maggiori”.
E veniamo al Pd…
“Dopo il voto in Lombardia e nel Lazio, al netto della sconfitta delle coalizioni, il Pd ha raggiunto il 20%. Cioè ha mantenuto molto, anzi, in parte, è stato perfino sorprendente. Io, come altri, immaginavo che sarebbe rimasto sotto questa cifra. E qui bisogna fermarsi per fare un’analisi politica che riguarda tutta l’area del centro sinistra: intanto è crollato il Movimento 5 stelle. Cioè è fallita l’ipotesi che Conte stava perseguendo con intelligenza tattica, vale a dire il tentativo di sostituire a sinistra il Partito democratico. Fare un’Opa sul Pd, come è stato detto, in modo da potersene impadronire negli anni venturi. Questo disegno è stato cancellato dal voto. E non è decollato in questa tornata elettorale il Terzo Polo di Renzi e Calenda. In conclusione, il Pd si conferma ancora una volta come il cardine di una possibile, futura, lontana alleanza nel centrosinistra. Ma il partito deve ancora trovare se stesso. Sarebbe un punto di partenza capire che i voti sono stati guadagnati nelle grandi città del nord. E questo è un segno più ideologico e culturale che economico. Insomma, parliamo di un voto di opinione di una borghesia non ancora disposta a cedere sul piano di alcuni valori e prospettive. Ma per quanto tempo la cosa potrà reggere? E quali saranno i progetti che permetteranno al Pd di consolidare questo blocco ancora così generoso nei suoi confronti? Resto scettico, ma vedremo”.
Qual è, secondo Lei, il vero male oscuro del Pd? L’incapacità di imboccare fino in fondo una chiara strategia riformista e di liquidare ogni tentazione di populismo e di massimalismo, lo strapotere delle correnti, o che altro?
“Il male oscuro c’è ancora, ma non è di oggi, nasce quando nasce il Pd. Come era possibile immaginare che due tradizioni politiche sconfitte, Dc e Pci, si mettessero insieme per fare un partito? Dopo essersi combattute per 50 anni: inimmaginabile. La verità è che prima ancora di fondare un altro partito, almeno la parte che si riconosceva nel Pci, doveva fare i conti con la propria storia, soprattutto con il fallimento del 1917. Invece si è preferito un nuovo soggetto che avrebbe consentito di galleggiare fra una linea e l’altra, una volta più massimalista, un’altra ancora più liberale e via cambiando. E tuttavia l’ultimo risultato elettorale, ripeto il 20% e non il 14 o 15% come si immaginava, fa capire che in un certo ambito di società il Pd è ancora visto come una chiave ineliminabile per il cambiamento. Insomma, il male oscuro è presentissimo, ed è ancora legato alla incapacità del partito di fare i conti con la propria storia, in senso profondo, serio e di fronte al fatto che anche il concetto di sinistra e destra che vanno ripensate nel loro significato”.
Quanto pesano in tutto questo le correnti?
“Ma il Pd è fatto solo di correnti, ogni esponente ha una sua corrente. Il problema non è però tanto questo, per me il problema principale del Pd, è il fatto che c’è una maggioranza del partito ancora viva, meno di prima, ma ancora viva, che pensa che il suo destino sia l’alleanza con i Cinque stelle. Io ho sempre pensato che il Pd avrebbe avuto una prateria davanti se avesse lanciato un’Opa verso il centro liberale. Naturalmente mantenendo la caratteristica di un partito di sinistra e riformista. L’errore grave è stato, ed è, mettersi a ridosso di questo Movimento che non si sa che cosa sia: governano ora con la Lega, ora con il Pd, ora da soli. Conte a mio parere è un avventuriero della politica. Se il Pd si affida a queste forze veramente non ha più ruolo. Deve staccarsi, il Movimento 5 Stelle è un nemico politico. Io l’ho definito in alcuni scritti il “cancro” della democrazia italiana: per come è nato, per come agisce, per come cambia. Per come la vedo io, al di là delle correnti, il Pd non dovrebbe esitare nel definire la propria identità rilanciando il liberalismo democratico che è in una crisi drammatica, criticando in maniera aspra la politica dei M5Stelle, e provare così a vedere quale pezzo di società riesce ad aggregare con questa politica. Non è detto che sia un successo, lo capisco. Ma sarebbe una bella battaglia. Migliore di quella di mettersi sul carro senza qualità del M5Stelle.”
Veniamo al congresso: che Pd si aspetta se dovesse vincere il congresso Bonaccini o se dovesse sorprendentemente prevalere Schlein? Molti pensano che con Bonaccini segretario si aprirebbe la strada alla costruzione di un’area riformista che dal Pd arrivi fino a Calenda e a Renzi, mentre c’è chi pensa che la vittoria di Schlein porterebbe inevitabilmente alla fusione con i Cinque Stelle. Lei che ne pensa?
“Mi auguro che vinca Bonaccini. Per me Schlein è una catastrofe, oserei dire una infiltrata dei 5Stelle. Bonaccini è un bravo presidente di regione, può rappresentare una buona transizione fino a quando nasca un gruppo dirigente che abbia una visione più lunga. E quindi sì, se vincerà Bonaccini penso sia possibile costruire questa vasta area riformista. Ma Renzi e Calenda escono molto male da queste elezioni, devono fare uno sforzo. E lo dice uno che li ha scelti nelle scorse politiche. O si mettono a ripensare a questa creatura seriamente, oppure l’esperienza si esaurirà. Intanto Renzi è scomparso, non lo sento più come un leader. È come se avesse capito da solo, dato che è uno dei pochi talenti politici nato negli ultimi anni, che il suo tempo fosse finito. Anche se è tutto da vedere, in politica non ci sono quasi mai certezze assolute sul futuro, né sugli uomini né sui loro prodotti.”
Autonomia differenziata: cosa ne pensa?
“È il tema che esploderà nei prossimi mesi. Le due Italie si stanno separandosi. Non c’è più una cultura che parla del Mezzogiorno. Quella passata ovviamente è passata, ora ci vorrebbe un nuovo pensiero, che non c’è. Quindi si può essere succubi di un’autonomia differenziata che rende ufficiale la spaccatura dell’Italia in due. È un problema enorme al quale il Pd, ma non solo, dovrà mettere mano”.
Non le sembra paradossale che perfino il riformista Bonaccini, pur comprendendo le sue necessità tattiche in vista del Congresso, non abbia esitato a liquidare la riforma simbolo del Jobs Act della stagione renziana che, a conti fatti, ha prodotto un milione di posti di lavoro in più?
“Lo capisco se rifletto su quello che è accaduto al Pd negli anni passati. Renzi a un certo punto è diventato il nemico da cacciare. Bonaccini fa parte di quella parte maggioritaria del Pd il cui problema era: eliminare Renzi. Per toglierlo da mezzo bisognava cancellare anche le parole chiave del renzismo, tipo Jobs Act. Cancellare i simboli, per cancellare la persona”.
Il netto appoggio all’Ucraina contro l’invasore russo e la collocazione europeista e atlantica del Pd sembrano l’unica eredità positiva della deludente segreteria Letta: dopo il Congresso si può pensare che il Pd manterrà un orientamento di politica estera che non ceda ai falsi pacifismi che circolano a destra come a sinistra?
“No, non credo: la politica estera resterà ferma. Allo stato dei fatti tutto il fronte occidentale tiene. Ci potrebbero essere dei cambiamenti rispetto all’andamento della guerra che non possiamo prevedere, ma la sostanza non cambierà. Certo, vincesse la Schlein potrebbe essere un’altra storia. Ma prima vediamo come va a finire”.
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Bravo De Giovanni! Dice cose giuste e cose vere!
Come De Giovanni riesca a pretendere di conciliare la Sinistra con il liberalismo (e il conseguente liberismo, anzi l'ultraliberismo con i noti effetti perversi) è tutto da dimostrare e De Giovanni non dice. Dice invece con chiarezza qual è la sua area di riferimento:quella di Renzi e Calenda che con la Sinistra e i suoi valori fondanti quasi nulla ha a che fare. L'intervista poi, è volgarmente tendenziale